LA SENTENZA “BECK”

TRIBUNALE DI FIRENZE

sentenza 16 novembre 1991

Pres. ed est. MARADEI

 

Imputato James Beck

 

Ingiuria e diffamazione – Diffamazione con il mezzo della stampa –

Reato – Esclusione – Fattispecie

 

(Cod. pen., art. 595; l. 8 febbraio 1948 n. 47, disposizioni sulla stampa, art. 13)

 

Le critiche mosse da uno studioso d’arte ad un restauratore per i metodi utilizzati e i risultati conseguiti nell’opera di restauro di una importante scultura, ancorché particolarmente aspre, non integrano gli estremi del reato di diffamazione se fondate su una adeguata competenza e formulate nel rispetto dei limiti della pertinenza e continenza. (1)


Nota

(1) Non constano precedenti in termini.

La giurisprudenza ha elaborato i canoni a cui ispirare il giudizio di bilanciamento tra libertà d’espressione del pensiero e onore delle persone, soprattutto con riferimento allo specifico campo del diritto di cronaca e di critica di matrice eminentemente giornalistica; a tal proposito, ha raggiunto una sostanziale omogeneità d’indirizzo indicando nella pertinenza, nella verità e nella continenza i limiti al rispetto dei quali è subordinata la liceità delle affermazioni (v., tra le più recenti, Cass. 15 ottobre 1987, Beria D’Argentine, Foro it., Rep. 1989, voce ingiuria e diffamazione, n. 14).

Permangono oscillazioni, invece, sulla correttezza di un accertamento ‘elastico’ rispetto al secondo dei criteri sopracitati: un orientamento relativamente meno rigoristico e forse prevalente, ritiene bastevole – tenendo conto anche delle concrete modalità di funzionamento della moderna industria editoriale – la sussistenza del requisito del serio accertamento del fondamento delle notizie pubblicate, attraverso la verifica delle fonti da parte dell’autore, perché ricorra validamente la forma putativa della scriminante di cui all’art. 51 c.p. (cfr. Cass. 28 luglio 1990, Calderoni, id., Rep. 1991, voce cit., n. 12 e Giust. pen., 1991, II, 389; 3 ottobre 1990, Milani, Foro it., Rep. 1991, voce cit., n. 32; 27 febbraio 1985, Gamba, id., Rep. 1987, voce cit., n. 23 e Dir. informazione e informatica, 1986, 839, con nota di Mantovano; nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Messina 13 dicembre 1988, Foro It., Rep. 1990, voce cit., n. 20; con conseguente ed esplicita sostituzione del termine verità con il più coerente veridicità, v. Trib. Bologna 22 dicembre 1986, id., Rep. 1987, voce cit., n. 47 e Resp. civ., 1987, 296; contra, Cass. 26 marzo 1983, Dotti, Foro it., Rep. 1984, voce cit., n. 33). Mentre un’altra tendenza, caratterizzata da una maggiore severità (Cass. 7 luglio 1987, D’Asaro, id., Rep. 1988, voce cit.n. 21; 21 aprile 1982, Bocca id., Rep. 1983, voce cit., n. 28 e Giust. pen., 1983, Il, 389), considera sempre indispensabile la verità delle affermazioni reputate diffamatorie (per una chiara delineazione dei due orientamenti e delle implicazioni generali da essi derivanti, vedi, comunque, FIANDACA, Nuove tendenze repressive in materia di diffamazione a mezzo stampa?, in Foro it., 1984, II, 531, a commento di Cass. 30 giugno 1984, Ansaloni).

Per quanto concerne la presente fattispecie, può essere notata una certa analogia tra il primo orientamento testé accennato e l’uso, da parte di Trib. Firenze, del concetto di «fondatezza» per qualificare lecita la critica rivolta da un esperto d’arte, quindi al di fuori dell’esercizio della professione giornalistica, all’operato di un restauratore. E infatti, nel caso di specie (sul quale, v., sotto altro profilo, App. Firenze 24 novembre 1992, id., 1993, II 93) trattandosi di opinioni e critiche attinenti al mondo dell’arte e del restauro, sarebbe risultato poco conducente valutare la qualità delle affermazioni denunciate alla luce della loro conformità o meno ad un concetto di venia che non trova certamente cittadinanza in un contesto culturale e scientifico ove si fronteggiano teorie generali e conseguenti soluzioni tecnico-pratiche diverse e spesso inconciliabili.

Sembra emergere, dunque, un principio comune che in fondo supporta l’adozione di soluzioni giurisprudenziali destinate a regolare problematiche affatto distinte e relative rispettivamente a questioni concernenti il diritto di cronaca giornalistica, da un lato, e, dall’altro, il diritto di opinione artistico-culturale. In entrambe le circostanze, infatti, piuttosto che un astratto concetto di verità, prevale l’interesse ad accertare che la condotta dei soggetti agenti corrisponda o meno ad un modello «tipo» di esercizio corretto e scrupoloso delle attività legate a quel particolare ambito professionale. In tale direzione, ma con riferimento sostanzialmente al requisito della continenza, si è del resto espressa la Cassazione (sent. 25 marzo 1982, Giardina, id., Rep. 1983, voce cit., n. 10 e Riv. pen., 1982, 963) in relazione ad un caso concreto che vedeva stavolta denunciato un critico musicale per un articolo di cronaca, in merito ad un’opera lirica, ritenuto diffamatorio dalla cantante protagonista. Nella motivazione della sentenza, infatti, si legge: «…il giudizio della stampa deve essere contenuto entro i limiti di responsabilità professionale e di civile correttezza…anche se strettamente personale e legato a proprie valutazioni di analisi, di cultura, di scuola…, per cui occorre che l’eventuale dissenso sia motivato e obiettivo e che non trasmodi in espressioni non attinenti alla critica». Sullo stesso tema, ma più risalente nel tempo, vedi Cass. 19 giugno 1963, Nelson Page, Foro it., 1964, 11, 12. Per quanto concerne ipotesi che non fanno capo direttamente all’attività giornalistica, si muove, per certi versi, nello stesso senso la massima di Cass. 24 aprile 1985, Zanelli, id., Rep. 1986, voce cit., n. 15: «…nei rapporti tra persone esercenti la medesima attività professionale, se è consentito manifestare giudizi negativi sull’operato del collega, questi devono però rimanere nell’ambito di un dissenso motivato su basi tecnico-scientifiche… ». Nella sentenza su riprodotta, similmente, ha giocato un ruolo decisivo il fatto che le opinioni espresse in merito alle tecniche di restauro sono sembrate all’organo giudicante il frutto di una notevole preparazione generale e di una specifica competenza in materia; di conseguenza, esse sono state considerate corretta e responsabile estrinsecazione di una valutazione, ancorché fortemente critica e potenzialmente dannosa all’altrui prestigio professionale, adeguata sia allo status professionale del critico d’arte che all’importanza dell’opera restaurata.

 


 

Ritenuto in fatto e in diritto. — Beck James veniva tratto a giudizio direttissimo dal p.m. per rispondere del reato in epigrafe.

Nel corso del dibattimento veniva espletata l’istruttoria richiesta dalle parti e dichiarata la utilizzabilità di tutti gli atti istruttori effettuati nel corso della udienza del 17 maggio 1991, atteso il provvedimento del presidente del tribunale in data 7 novembre 1991, allegato al verbale. Infine p.m. e difesa concludevano come da verbale. Ritiene il tribunale che l’imputato deve essere assolto con la formula di cui al dispositivo.

Deve essere innanzitutto osservato che l’impugnazione contestata dal p.m. contiene per intero i due articoli pubblicati su La Nazione e dei quali il querelante si duole. La mancata specificazione delle frasi ritenute diffamatorie deve far ritenere, onde evitare sovrapposizioni illegittime nel potere-dovere di esercizio dell’azione penale, che l’ufficio del p.m. ha inteso far rientrare nel reato contestato tutto il frasario che nei due articoli è attribuito all’imputato, escludendo, nel contempo, tutto quanto non proviene da quest’ultimo direttamente, attesa anche la non incriminazione del giornalista autore dell’articolo.

Ciò premesso, si deve ora valutare se le frasi attribuite all’imputato sono state dallo stesso effettivamente pronunciate; se le stesse (risolto positivamente il primo quesito) hanno contenuto diffamatorio; se infine (accertato il contenuto diffamatorio) si deve ritenere sussistente la scriminante dell’esercizio del diritto di critica. Quanto al primo problema è opportuno riferirsi alle dichiarazioni del giornalista De Ranieri e dell’imputato. L’autore dell’articolo ha dichiarato, con alcune incertezze, che le parole virgolettate erano testuali, ma che l’intervista non era stata registrata e non era più in possesso del taccuino degli appunti presi nell’occasione.

Aggiungeva anche che egli aveva l’abitudine di virgolettare certe espressioni e che c’erano cose frutto di sintesi. A sua volta, l’imputato dichiarava che quanto pubblicato era «più o meno» la sua opinione, ma che non aveva mai pronunciato la parola «scempio» perché non la conosceva neppure nella lingua italiana (che è la lingua usata nell’intervista), e che l’espressione «cosiddetti» (restauratori) è nella lingua inglese del tutto innocua (inglese: so called). Così riassunte nelle parti interessanti le dichiarazioni del giornalista e dell’imputato, appare chiaro che il Beck non nega di aver pronunciato le frasi di cui agli articoli, malgrado delle stesse non vi sia alcuna documentazione scritta o registrata, pur negando di aver pronunciato la parola «scempio», e pur attribuendo un significato del tutto innocuo alla espressione «cosiddetti» (restauratori). E quindi, sul primo problema posto si deve affermare che le frasi attribuite negli articoli al Beck sono state da lui effettivamente pronunciate, con l’eccezione della parola «scempio».

Si noti, in proposito, che non solo non esiste documentazione dell’intervista, ma lo stesso giornalista è apparso titubante e incerto nel riferire all’imputato tutte le frasi virgolettate, al punto che in un primo momento aveva dichiarato che le parole scritte erano frutto di sintesi, e solo in un secondo momento, all’incalzare delle domande del p.m., che erano testuali, pur confermando la mancanza di documentazione a comprova.

Se, oltre a tali contraddizioni, si mette in evidenza la delicata posizione processuale del De Ranieri, sentito come teste, ma autore degli articoli in questione, sí comprende come la valutazione sulla attendibilità di quanto dichiarato sul punto comporta una conclusione favorevole all’imputato, che ha negato di aver pronunciato la parola pur attribuendosi la paternità di tutto il resto degli articoli.

È poi del tutto credibile che il Beck potesse realmente ignorare la parola nella lingua italiana, atteso che, se pure egli si esprime con discreta correttezza, è del tutto evidente una diversa provenienza linguistica del suo modo di esprimersi, anche nella costruzione delle frasi. In conclusione, la parola «scempio», non può essere attribuita all’imputato, mancando le prove che egli l’abbia effettivamente pronunciata. Quanto alla espressione «cosiddetti», si vedrà più avanti. Va ora affrontato il problema se le frasi pronunciate dal Beck hanno contenuto diffamatorio.

E’ in proposito preliminare stabilire, mancando ogni cenno diretto al querelante nei due articoli, se l’imputato comunque sapesse che l’autore del restauro era il Caponi, o che comunque abbia parlato volendosi riferire all’autore del restauro chiunque egli fosse, e se, infine, dal complesso degli articoli l’autore del restauro medesimo era riconoscibile.

Quanto alla prima domanda si può rispondere in senso negativo. Dalle dichiarazioni del De Ranieri e dell’imputato emerge con chiarezza che il Beck, che non vive abitualmente in Italia, non sapesse chi aveva materialmente effettuato il restauro del capolavoro. Addirittura il De Ranieri ha dichiarato che l’imputato aveva chiesto, nel corso dell’intervista, chi era l’autore del restauro, ma che nessuno era stato in grado di fornirgli la risposta.

Il Beck inoltre era assente dall’Italia da tempo e neppure sapeva che il capolavoro in questione era oggetto di restauro, avendolo appreso solo durante la visita. Va quindi escluso che l’imputato sapesse che il Caponi aveva restaurato l’opera. Purtuttavia dalla lettura dell’articolo appare evidente che il Beck si riferiva non solo a quei restauratori in generale, seguaci di una scuola che egli non approvava, ma proprio, specificamente, al restauratore, o restauratori dell’Ilaria del Carretto, così che appare ininfluente la mancata conoscenza del nome del restauratore medesimo, a condizione, comunque, che dalla lettura degli articoli quest’ultimo fosse identificabile.

Orbene, non vi è dubbio che per la gran massa dei lettori della Nazione sia certa la non conoscenza del querelante, sia come persona e sia come restauratore del capolavoro in questione. Semmai la identificazione era facile e possibile per gli intenditori, gli addetti ai lavori, i critici d’arte, i restauratori, e comunque per le persone di un livello culturale ben al di sopra della media. E poiché deve con certezza ammettersi che tutti costoro hanno letto o potevano aver letto i due articoli incriminati, si deve affermare che la individuazione del Caponi era possibile nell’ambito di una cerchia di specialisti, relativamente ampia, così che, ove si fosse verificata lesione della sua reputazione attraverso le frasi degli articoli, tale lesione non sarebbe rimasta circoscritta in ambiti ristrettissimi e forse irrilevanti, ma si sarebbe diffusa in ambienti anche professionali, dove maggior danno avrebbe provocato alla vita professionale del querelante.

Ciò detto, si devono a questo punto esaminare le espressioni attribuite al Beck negli articoli per accertare se le stesse hanno, oggettivamente, contenuto diffamatorio nei confronti dell’autore del restauro. Iniziando dalla parola «cosiddetti» (restauratori), si deve tener presente che l’imputato si esprimeva in una lingua non sua e che, verosimilmente, nella traduzione mentale dall’inglese delle frasi o delle parole, nella loro letteralità, queste possono assumere un significato diverso, anche al di là delle intenzioni di colui che le ha pronunciate.

Orbene, nell’inglese so called, per quanto è noto al tribunale, anche sulla scorta della traduzione letterale fatta dall’imputato (“cosi chiamati” — cioè “restauratori di un certo tipo”) non si ravvisa esistente il sottile senso spregiativo dell’italiano “cosiddetti”. Appare cioè credibile che nel pronunciare la parola in questione, tradotta letteralmente dall’inglese so called, il Beck non avesse consapevolezza del diverso significato assunto nella nostra lingua, e che non avesse, di conseguenza, intenzione di rivolgersi, con atteggiamento dispregiativo, all’autore del restauro.

Inoltre, alla parola «cosiddetti», segue, al plurale, nel testo degli articoli, la parola «restauratori», per cui è plausibile anche che l’intento critico si rivolga in realtà a tutti quei restauratori che seguono quei criteri non condivisi dal prevenuto, tra i quali anche, ma indirettamente, l’autore del lavoro in questione. In conclusione sul punto, alla luce delle valutazioni fin qui fatte, deve escludersi che la parola in esame abbia assunto, nel contesto della frase e dell’articolo (e di ciò si dirà ancora più avanti) valenza offensiva. Si deve ora prendere in esame, anche sulla scorta della querela, la successiva frase: «ormai siamo alla nuova barbarie». «Si restaura e nello stesso tempo si distrugge».

Appare qui evidente, dalla lettura di tutto il capoverso dell’articolo, anche in cronaca nazionale, che il Beck si riferiva, prendendo spunto dal restauro del capolavoro lucchese, alla scuola di restauro cui appartiene anche il querelante, della quale criticava sia i principi che i metodi, senza che le parole usate assumano alcun oggettivo significato offensivo per il Caponi, al di là della netta presa di distanza, riferibile anche ad altri restauri quali l’altare Trento di S. Frediano e le mura lucchesi.

Ed ancora, nessun significato oggettivamente offensivo per il Caponi hanno altre frasi o parole quali «il marmo non sembra tale ed ha perso le sue caratteristiche», «non si nota più il gioco dei chiaroscuri», «tutto appare piatto». In tali espressioni non può ravvisarsi in nessun modo alcuna valenza offensiva per la reputazione del querelante, proprio perché oggettivamente il significato letterale delle parole ne è del tutto privo.

Quanto alle altre frasi dei due articoli, fin qui non esaminate, non può negarsi nelle medesime un astratto potenziale offensivo della reputazione del Caponi, ma deve affermarsi che rientrano nel diritto di critica che all’imputato competeva. In proposito si deve innanzitutto evidenziare che il Beck, come risulta dalle pubblicazioni specialistiche esibite o prodotte, è da lungo tempo uno studioso di Jacopo della Quercia, per cui egli ha particolare competenza specifica a pronunciarsi sulle opere di questo autore.

Di conseguenza, pur non essendo egli un restauratore, aveva ed ha un particolare interesse di studioso a valutare gli esiti dei restauri operati sulle opere dell’autore da lui studiato. Orbene, sia le frasi fin qui non esaminate, che il complesso dei due articoli, evidenziano una valutazione da parte del Beck severamente critica di una particolare tecnica di restauro, che è poi quella usata dal Caponi per l’Ilaria del Carretto. Non può certo negarsi all’imputato il suo pieno diritto di esprimersi criticamente nei confronti di tali tecniche di restauro, considerato che tali opinioni sono seriamente fondate sugli esiti dei suoi studi, specifici e non.

Va inoltre aggiunto che negli articoli non vi sono riferimenti alla persona del restauratore, alla sua integrità morale e di cittadino, ma esclusivamente critiche severe alle tecniche usate ed agli esiti delle stesse. Si deve quindi ritenere che anche le parole ed espressioni potenzialmente lesive della reputazione del Caponi, sono scriminate dall’esercizio del diritto di critica, garantito dalla Costituzione. È noto che tale diritto è ravvisabile quando la manifestazione del pensiero riguarda argomenti di interesse pubblico, la critica è seriamente fondata (nel diritto di cronaca si parla di verità del fatto), e le espressioni sono continenti. Nel caso in questione non vi è dubbio alcuno che sussistesse l’interesse pubblico: la scultura di Ilaria del Carretto appartiene al patrimonio culturale universale, trattandosi di opera d’arte eccelsa, ed è quindi del tutto evidente che una controversia critica come quella sollevata dall’imputato ha un interesse pubblico assoluto, sul quale non appare necessario spendere ulteriori argomentazioni. Quanto al serio fondamento della critica, nel caso in questione, si è già detto.

Il Beck è uno studioso da tempo di Jacopo della Quercia e le sue valutazioni sul restauro dell’opera traggono fondamento e forza da tali presupposti incontestabili. Quanto al problema della continenza delle espressioni di critica, deve valutarsi innanzitutto l’ambito particolare della controversia. Si tratta di un campo riservato essenzialmente agli studiosi perché prettamente tecnico. Le valutazioni che sembrano evidenziare una particolare severità critica, o ipotizzare gravi errori di tecnica del restauro, fino alla «rovina» dell’opera, sono proporzionali alla eccezionale qualità dell’opera restaurata, e, quindi, ad analoga eccezionale necessità di particolare cautela nell’approccio tecnico ai problemi posti dal restauro della stessa. Si noti che le controversie critiche sul punto non investono soltanto il modo del restauro, ma addirittura la necessità stessa dell’intervento.

Infatti il Beck, dal suo punto di vista senz’altro coerente, contesta non solo le tecniche, ma proprio l’intervento in sé, ritenendo egli, da studioso qualificato, che molte delle opere sottoposte a restauro, in realtà non avrebbero necessità di alcun intervento, poiché l’opera d’arte, con il trascorrere del tempo, ha assunto forme e significati anche diversi da quelli originari, che dovrebbero essere conservati e non rimossi. In tali ambiti, persino la patina di sporco o la polvere vengono ad assumere significati culturali, intrinsecamente immedesimandosi nell’opera fino a conferirle particolari atmosfere, chiaroscuri, visioni che nell’osservatore suscitano emozioni e sensazioni che evocano anche nuovi livelli interpretativi.

La controversia culturale, come si comprende, è dunque profonda e seria, e non compete certo al tribunale pronunciarsi in materia. Purtuttavia, nella valutazione delle espressioni usate dal Beck non può non tenersi conto, oltre che dell’eccezionale valore dell’opera, anche del profondo contrasto tra le diverse scuole di restauro. Entrambe le ragioni non possono non consentire, in difesa di principi così importanti, l’uso di termini duri, che esprimono assoluto dissenso sulle tecniche e sui loro esiti.

Si spiegano così alcuni riferimenti e frasi contenuti negli articoli, quali il sospetto sull’uso di acidi, la scomparsa dell’ondulazione nelle chiome della statua, la «strapulitura… quasi lavata con il candeggio», la piattezza quasi di plastica, «Ilaria è stata rovinata in maniera irreparabile». Sia in queste parole, che in tutto il complesso dell’articolo, è esclusa ogni animosità personale, ed è invece presente un’aspra critica sia al restauro dell‘Ilaria del Carretto che alla scuola di restauro che è all’origine dell’intervento sul monumento lucchese.

E gli esiti di tale intervento sono presentati (del tutto legittimamente, anche se resta ovviamente impregiudicata ogni valutazione definitiva sulle diverse scuole) come gravissimi per le sorti dell’opera, e per tale ragione inducono il Beck ad affermazioni severe e ad avanzare sospetti anche sull’uso dei materiali del restauro. In sostanza, sia le parole che il tono generale sono senz’altro omogenee al livello del dissenso culturale sull’intervento di restauro ed all’eccezionale valore artistico dell’opera, la cui eventuale rovina, a causa del restauro, sarebbe certamente un danno irreparabile per la cultura mondiale.

In conclusione, per tutto il complesso delle ragioni fin qui esposte, l’imputato deve essere assolto con la formula di cui al dispositivo, non sussistendo negli articoli incriminati, alcuna offesa alla reputazione del querelante.


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