Fiorella Sricchia Santoro: Sul soggiorno spagnolo dello Starnina…

Sul soggiorno spagnolo di Gherardo Starnina

e sull’identità del ‘Maestro del Bambino Vispo

Fiorella Sricchia Santoro

Da: Prospettiva, n. 6, 1976, pp. 11–29

Trascrizione a cura di Andreina Mancini e Paolo Pianigiani

Fig. 4) Gherardo Starnina, ‘Giudizio Universale’.
Monaco, Alte Pinakothek

L’interessante risultato delle ricerche di J. Van Waadenoijen intorno alla più probabile destinazione del polittico fin lì messo in rapporto con le disposizioni testamentarie del cardinale Pietro Corsini e quindi con la commissione del 1422 nella cappella di San Lorenzo nel Duomo di Firenze, ha vivacemente riaperto il problema della identificazione del ‘Maestro del Bambino Vispo’, cioè dell’anonima personalità cui aveva dato vita il Sirèn fin dal 1904 facendo perno proprio sulle parti allora note di quello smembrato polittico.1 La concreta e anche iconograficamente ben documentata ipotesi che l’opera vada collegata non con quel lascito ma con le notizie relative alla costruzione e decorazione per conto del cardinale Angelo Acciaiuoli di una cappella nella Certosa del Galluzzo, ancora nel primo decennio del secolo,2 ha ridato fiato a interrogativi e perplessità che da qualche anno erano ormai nell’aria, almeno da quando con il semplice ma assai significativo accostamento di un particolare, tratto dagli scarsissimi resti della cappella di San Girolamo al Carmine attribuita allo Starnina già dalle fonti prevasariane, ad un particolare del polittico di Würzburg considerato del Maestro del Bambino Vispo, Luciano Bellosi ne aveva sottolineato la stupefacente affinità formale e culturale.3

E di fatto la Waadenoijden pur facendo presente la necessità di una verifica puntuale sulle opere, aveva subito osservato che se il polittico non più Corsini ma Acciaiuoli può essere cronologicamente anticipato fin entro il primo decennio del Quattrocento, da una parte viene in tutta evidenza il ruolo di forza motrice che il suo autore dovette avere nei confronti dell’affermarsi del gusto gotico internazionale a Firenze, dall’altra viene a cadere la maggiore preclusione alla sua identificazione con lo Starnina, tornato a Firenze appunto nei primissimi anni del secolo da quel vivo centro di cultura gotica internazionale che era già allora Valenza e morto prima del 1413.

A dimostrazione del rinnovato interesse al problema si sono avuti subito due indipendenti interventi. Sul n. 2 di ‘Prospettiva’ è apparso un saggio di Ferdinando Bologna che riconsidera con nuovi argomenti la già da tempo avanzata attribuzione allo Starnina, durante il suo documentato soggiorno a Toledo, di un gruppo di opere toscane tardo trecentesche ancora esistenti nella cattedrale della città spagnola (i resti dello smembrato retablo già nelle cappella del Salvatore con il connesso ‘San Taddeo’ del Vassar College di Poughkeepsie, la predella della cappella del Battesimo, la parte qualitativamente più alta degli affreschi della cappella di San Blas) e accoglie favorevolmente, pur senza addentrarsi nella questione, le prospettive aperte dalla ricerca della Waadenoijen sul problema dell’identità del Maestro del Bambino Vispo.4

Contemporaneamente il Boskovits in alcune pagine e note del suo folto volume sulla Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento prendendo in considerazione le stesse opere toledane, ribadiva l’attribuzione del Berenson ad Antonio Veneziano di parte degli affreschi della cappella di San Blas e della predella della cappella del Battesimo, ma riferiva anch’egli allo Starnina i pannelli facenti parte un tempo del retablo del Salvatore.

Quanto però alla successiva attività del fiorentino, lo stesso studioso, accennando in una nota al saggio appena apparso della Waadenoijen, opponeva alla nuova proposta il suo convincimento circa una sostanziale fedeltà del pittore alla cultura trecentesca di origine e ipotizzava la presenza a Firenze di un più moderno pittore spagnolo, appunto il ‘Maestro del Bambino Vispo’, collaboratore dello Starnina in quei tratti delle scarse opere documentate di quest’ultimo che hanno un più vivace timbro iberico.5 Questa opinione già in precedenza prospettata dal Gonzales Palacios6 è stata ulteriormente svolta dal Boskovits in un recentissimo intervento che, accettando l’ipotesi della Waadenoijen circa l’effettiva destinazione e quindi retrodatazione del polittico già Corsini e nello stesso tempo ribadendo la suaccennata interpretazione dei fatti, propone di identificare nel gruppo delle opere del “Maestro del Bambino Vispo” una non altrimenti documentata attività fiorentina dello spagnolo Miguel Alcañiz, che dovrebbe precedere la sua lunga attività spagnola, specialmente valenzana, ricordata attraverso vari documenti dal 1415 al 1452.7

Questo, sommariamente riassunto, l’iter più recente del problema risultante dal gruppo anonimo di opere riunito dal Sirèn, dal Berenson, dal Pudelko, dal Longhi e da altri da una parte e dall’altra dagli studi e scoperte sullo Starnina soprattutto del Procacci.8 Ma la conclusione suggerita dal Boskovits che, ribaltando i tempi, ripropone l’identificazione ‘Gil Master’ = ‘Maestro del Bambino Vispo’ già avanzata dal Longhi quando lo stesso Alcañiz si celava sotto quel nome convenzionale,9 è veramente l’unica possibile sulla base dei fatti oggi più o meno noti che convergono entro la questione?

E in primo luogo esiste veramente, al di là di certe indiscutibili assonanze, una continuità di fondo tra il gruppo ben omogeneo delle opere spagnole di Alcañiz e quello altrettanto omogeneo, salvo qualche indebita e già rilevata aggiunta, del ‘Maestro del Bambino Vispo’ 10 che consenta di ravvisarvi il processo di svolgimento e sia pure ad un certo punto di involuzione di un’unica persona sotto lo stimolo di diverse situazioni ambientali? Per esempio la dolce ma ferma pienezza plastica della ‘Madonna’ e dei ‘Santi’ di Würzburg (fig. 1)

fig. 1) Starnina, ‘Santa Margherita e Sant’Andrea’, Würzburg, Martin von Wagner Museum

o di quelli del polittico Acciaiuoli (fig. 2)

Fig. 2) Starnina, ‘San Zanobi (?) e San Benedetto’, Stoccolma, National Museum

e perfino della squisita ‘Madonna con il Bambino’ di Vienna (fig. 3),

fig. 3) Starnina, ‘Madonna con il Bambino’, Vienna, Kunsthistorisches Museum

solo mimetizzata dal movimento largo e capriccioso dei mantelli, o l’acuto profilarsi dei monti e dei castelli sul fondo d’oro nel ‘Giudizio Universale’ (fig. 4)

di Monaco o nella ‘Adorazione dei Magi’ di Douai possono essere il prodotto della stessa mente che a distanza di solo pochi anni avrebbe dato vita alle figure fragili e disossate sotto l’ammassarsi e il ripiegare manierato dei panni del ‘retablo de la Santa Cruz’ di Valenza (fig. 5)

fig. 5) Miguel Alcañiz , ‘Dissotterramento e verifica della vera croce’ (parte del retablo di Pujades), Valencia, Museo di San Carlo
Fig. 4) Gherardo Starnina, ‘Giudizio Universale’. Monaco, Alte Pinakothek

o al frastaglio fitto di casuali e corrose stalagmiti che chiudono l’orizzonte delle “Storie di San Michele’ a Lione o del ‘Martirio di San Marco’ (fig. 6)

fig. 6) Miguel Alcañiz. ‘Martirio di San Marco’, (parte di retablo), Valencia, Colle. Serra- de Alzaga

nel retablo già ad Onteniente ed oggi in collezione Serra de Atzaga a Valenza? C’è veramente passaggio possibile dal ‘Cristo giudice’ di Monaco, dominante con la sua solenne corte celeste sulla baia tempestosa e sulla distesa dei sepolcri scoperchiati, dunque da quest’opera sottilmente strutturata e di cultura complessa, al ‘Giudizio Universale’ con il Cristo ispido e sgangherato che incombe, con tutt’altro sentimento delle cose, sui timidi e goffi risorgenti nel retablo Pujades di Miguel Alcañiz a Valenza (fig. 7) e che pur certamente dipende da quello o altro simile prototipo?11

fig. 7) Miguel Alcañiz ,
‘Giudizio Universale’,
(parte del retablo di Pujades),
Valencia, Museo di San Carlo

Mi sembra che qualche dubbio sia, per la verità, abbastanza giustificato e che pur presupponendo i due gruppi di opere una indubbia esperienza in comune, e appunto di cultura valenzana al passaggio del secolo, l’ipotesi di una identità di persona, formulata anche dal Longhi quando ogni altra soluzione sembrava impossibile (ma comunque, ed è essenziale, suggerendo un ordine di fatti che avrebbe portato l’iberico germanizzante ‘Gil Master’ a rinnovarsi attraverso una successiva esperienza italiana) non resti sufficientemente provata. Da una parte abbiamo, a Valenza o provenienti da Valenza e da località relativamente vicine, una serie di opere il cui carattere fondamentalmente locale per aggressività espressiva, per particolari fisionomici, di iconografia e di costume, per una connaturata candida ‘scorrettezza’ formale nascosta sotto il fitto movimento del panneggio (collegabili alla cultura valenzana dei primi anni del Quattrocento dopo l’innesto germanico di Marçal de Sax) risulta solo attenuato dal ricorrere incerto e saltuario di una intelaiatura spaziale più aperta e pausata e da qualche modulo tipologico che rivelano una tangenza culturale italiana (figg. 8-9).

fig. 8) Miguel Alcañiz, ‘Uccisione di Cosroe’ (parte del retablo di Pujades), Valencia, Museo di San Carlo
fig. 9) Miguel Alcañiz,
‘Miracoli di San Marco’
(parte del retablo di Pujades), Valencia, Museo di San Carlo

Dall’altra parte invece, a Firenze o provenienti da Firenze, a Lucca, abbiamo un’altra serie di opere in cui le lucide e libere desunzioni compositive da Giotto e dalla più pura tradizione giottesca (vedi le varie versioni della ‘Dormitio Virginis’ di Chicago (fig. 10), di Philadelphia, di Colonia12), la ‘correttezza’ del disegno e quindi dell’articolazione formale, la solidità d’impianto delle figure, l’acutezza costante dei suggerimenti spaziali anche attraverso lo scorcio di una croce, di un libro aperto o porto di taglio, di un cartiglio o addirittura di un carretto con cavalli e carrettieri visti dal di dietro (nel ‘Miracolo di San Zanobi’ parte della predella Acciaiuoli oggi nel Poldi Pezzoli) individuano i termini certi di una cultura cresciuta appunto nel gran solco della tradizione giottesca, ma venuta a contatto con le nuove sottigliezze descrittive della cultura d’oltralpe al volgere del secolo, con la sua vena fantasiosa e profana, con il gusto per l’esuberanza avvolgente delle vesti.

fig. 10) Starnina,
‘Dormitio Virginis’,
Chicago, Art Institute

Che questo contatto implichi specificamente l’area iberica e più particolarmente valenzana lo dimostrano non solo i legami con il gruppo di cui si è detto prima, ma anche i rapporti sicuri con l’unica opera certa di Marçal de Sax a Valenza e, insieme, con il discusso retablo di Bonifacio Ferrer nella stessa città, di cui parleremo.

La cerniera fra le due serie di opere, nel senso che in essa si compenetrano allo stadio di incontro anzi di scontro vivo, bruciante, gli elementi costitutivi delle due esperienze, è il citato ‘Giudizio Universale’ di Monaco che pare provenga da Maiorca (fig. 4). Pubblicandolo nel 1538 come opera del ‘Maestro del Bambino Vispo’ il Pudelko13 aveva creduto di poterlo collegare, in accordo con quanto avevano già suggerito vari studiosi spagnoli, con un avvenimento del 1415 e cioè l’incontro a Perpignan, per risolvere l’ormai drammatico scisma d’occidente, tra il papa avignonese Benedetto XIII, l’imperatore Sigismondo, re Ferdinando d’Aragona e sua moglie, rappresentati fra i beati, e la data conveniva perfettamente al probabile inizio di un pittore che subito dopo il 1422 avrebbe dipinto il polittico per Pietro Corsini.

Successive obbiezioni del Post e dell’Oertel hanno già riguardato la riconoscibilità di precisi personaggi e da esse traeva partito la Waadenoijen per sganciare l’opera da quella data e collocarla, conseguentemente alle risultanze del suo lavoro, nella iniziale del rinascente Starnina, quando l’esperienza valenzana era per lui vivissima14 Il Boskovits invece, tenendo fede alle supposizioni fatte proprie dal Pudelko, vi vede gli inizi della seconda attività spagnola di Alcañiz, più sensibile alle influenze locali. Ora, sembra incontestabile che l’opera di Monaco faccia corpo con il gruppo fiorentino, cioè che il senso di spazio creato dai sepolcri scoperchiati edal paesaggio, nonché dal disporsi a cerchio degli apostoli gravi e maestosi, e la straordinaria naturalezza delle figure che si affacciano dagli avelli o cercano di sfuggire ai demoni incalzanti, siano riconducibili alla cultura che ivi si esprime; ma è anche vero che sia nell’iconografia del Cristo giudice, sia nel gioco più che mai esuberante del panneggio, sia nella più caratterizzata fisionomia dei personaggi, essa presenta punti di contatto più immediati con il gusto Valenzano e per qualche tratto anche con il celebre foglio miniato del ‘Giudizio’ nel codice di Santa Eulalia della cattedrale di Barcellona (fig. 11), cui Rafael Destorrent attendeva nel 1403.15

fig. 11) Rafael Destorrent,
‘Giudizio Universale’,
(Codice di S. Eulalia, particolare)
Barcellona, Cattedrale

D’altra parte il riferimento al 1413 non è soltanto indebolito dalla ragionevole possibilità che i qualificati personaggi ‘beati’ rappresentino solo i gradi più alti della gerarchia sociale sottoposti imparzialmente a giudizio, come suggerirebbe il fatto che un altro papa, altri regnanti e cardinali si divincolano tra i dannati, ma urta anche contro il rilievo che l’incontro di Perpignan con l’imminente definitiva detronizzazione di Benedetto XIII per volontà ormai congiunta dell’imperatore Sigismondo e di Ferdinando d’Aragona era tutt’altro che opportuno per una celebrazione da parte aragonese, nel cui ambito l’opera è nata. Se è possibile un riferimento storico preciso esso dovrebbe riguardare gli anni in cui, ad apertura di secolo, la corona d’Aragona, cioè re Martino il vecchio e suo figlio Martino re di Sicilia, sposo di Bianca di Navarra, nonché i fratelli Ferrer sostenevano con tutte le loro forze il papa aragonese, prima della scomunica di Pisa. E a Valenza re Martino risiedeva spesso.16

Insomma che una concreta alternativa esista all’ipotesi della presenza di Alcañiz a Firenze nelle vesti del ‘Maestro del Bambino Vispo’ è implicito oltre che nelle considerazioni fatte, nell’opinione già espressa da vari studiosi e sembra giusto saggiarne con maggiore attenzione la consistenza. Essa investe, direttamente ed esclusivamente ormai, il fiorentino Starnina, iscritto alla Compagnia di San Luca a Firenze nel 1387, che già le fonti prevasariane ricordano partito per la Spagna (appare infatti documentato a Toledo e a Valenza e rientrato a Firenze quanto meno in tempo per eseguire, oggi sappiamo entro l’ottobre del 1414, gli affreschi della cappella Pugliesi dedicata a San Girolamo nella chiesa del Carmine.)17

Di questo pittore non rimangono oggi che i frammenti davvero esigui della cappella testé citata, raccolti dopo lo strappo nell’aula capitolare della stessa chiesa ed altri, anche più scarsi del Museo di Empoli, provenienti da una cappella dedicata alla Nunziata della locale chiesa di Santo Stefano, per la quale esiste un documento del 1409,18 opere le cui indubbie risonanze iberiche hanno appunto fatto parlare recentemente della presenza di un collaboratore spagnolo, alias Alcañiz. Non meno importanti e indubbiamente integrativi sul piano documentario sono da considerare però certi referti verbali espressi ancora in presenza delle opere: sia quelli assai precisi del Vasari19 circa le novità proposte dallo Starnina dopo il ritorno dalla Spagna, per le quali si poneva al centro dell’attenzione in quel momento con il gusto del costume profano, cioè le vesti alla spagnola ‘con invenzione molto propria e con abondanza di modi e di pensieri nell’attitudini delle figure’, la vivace caratterizzazione del racconto figurato, una ghiribizzosa acutezza naturalistica, sia la testimonianza diretta del Toesca circa ‘l’estremo goticheggiare’ delle parti che egli aveva potuto vedere ancora di persona dell’affresco con ‘San Dionigi’ sulla facciata del Palazzo di Parte Guelfa, dipinto per celebrare l’acquisto di Pisa, intorno al 1406.20 Anche il Gamba ricordava nel 1932 che al tempo del ripristino del palazzo era ancora visibile il contorno preparatorio dei lembi estremi del manto di tale figura e che “esso era di un gotico così stilizzato e aggrovigliato da richiamare in mente più che altro alcune figure del Ghiberti nelle vetrate del Duomo o di Rossello e affini.21 Documenti figurativi e verbali contribuiscono dunque concordemente ad inclinare la supposizione che lo Starnina si ripresentasse a Firenze non sostanzialmente mutato rispetto ai suoi a noi sconosciuti ma in qualche modo intuibili precedenti.

In verità l’elemento che attualmente più conta nell’ipotizzare una fisionomia sostanzialmente trecentesca del pittore fiorentino, una volta messi da parte i tentativi di individuarne la giovanile presenza fra gli aiuti di Agnolo Gaddi in Santa Croce,22 è il citato gruppo di opere toscane, più o meno gravemente ridipinte, della cattedrale di Toledo che il Berenson catalogava nel 1963 sotto il nome di Antonio Veneziano e che, in precedenza e più recentemente come si è visto, sono state messe tutte o in parte in rapporto con la presenza documentata dello Starnina nella città stessa. Questa presenza è sostenuta da un ‘recibo que dio Girardo Jacopo Pintor de Florencia’, cioè una ricevuta non meglio specificata che un diligente ma spiccio riordinatore settecentesco dell’archivio della cattedrale di Toledo, il canonico Felipe Antonio Fernandez Vallejo, segnalò di aver visto tra le carte riguardanti Pedro Fernandez de Burgos, fondatore della cappella del Salvatore (ma anche, e deve essere tenuto presente, ‘veedor’ cioè soprintendente della cattedrale almeno dal 1387) catalogandola ‘entre los ynutiles’.23 Poiché proprio alla cappella del Salvatore apparteneva lo scomposto retablo con “Storie di Cristo” oggi nella cappella di Sant’Eugenio, ridipinto pressoché integralmente in due momenti successivi alla fine del 400 e ai primi del ‘500 da Francisco de Amberes e Juan de Borgoña, cui vanno collegati i due ‘Apostoli’, essi pure alterati da ridipinture, della cappella del Santo Sepolcro e quello citato del Vassar College24 sia il Bologna che il Boskovits nei citati studi del 1975, ne hanno tratto sostegno all’ipotesi che vi si potesse ravvisare la presenza dello Starnina in una fase in cui un chiaro legame con l’opera di Antonio Veneziano, di cui il Vasari lo dice allievo per molti anni, si presenta svolto in un senso che presuppone qualche connessione anche con Agnolo Gaddi, del quale la stessa fonte lo vuole attivo collaboratore. Da qui il Bologna procedeva suggerendo cautamente un allargamento del nome dello stesso pittore, per evidenti affinità stilistiche, alle altre opere di cultura fiorentina della cattedrale (salvo ovviamente le parti della cappella di San Blas sempre riferite ad aiuti spagnoli, Juan Rodriguez da Toledo di cui compare la firma, ed altri); il Boskovits invece restava fermo nella distinzione fra lo scomposto retablo “certamente dello Starnina’ e il resto che continuava a ritenere di Antonio Veneziano.

A questo punto però la ricerca deve ancora tener conto di qualche concreto elemento rimasto nell’ombra. Contrariamente a quanto è sempre stato affermato da parte italiana, fino agli studi più recenti, lo Starnina non è presente a Valenza solo a partire dal 1398, ma almeno dal 1395 come risulta inequivocabilmente dai documenti pubblicati già nel 1920 da F. Almarche Vazquez e in seguito mai più richiamati specificatamente.25 Il 22 giugno di quell’anno egli chiude i conti davanti al notaio Francisco Çaidia di un ‘retrotabulum’ che ha eseguito per conto di Pedro Suarez rettore della chiesa di Succa (a sud di Valenza), presente il committente che si dichiara a sua volta soddisfatto. Nell’occasione il notaio lo indica come ‘Gerardus Jacobi pictor civis valentie’ il che presuppone verosimilmente un soggiorno già abbastanza prolungato nella città, benché in altra carta dello stesso mese dove ricompare insieme con un conterraneo come testimone nella stesura di un testamento si firmi ‘pictor civis Florentie’. Nel novembre dello stesso anno ‘Gerardus Jacobi pictor civis florentie’ nomina a Valenza suoi procuratori, non si sa a quale preciso fine, due mercanti fiorentini ivi residenti, Giovanni di Stefano (cioè Johan Esteve personaggio di primo piano nei traffici con l’Italia) e Simone di Sagio.

In seguito non si sa più nulla di lui fino al luglio del 1398 quando i documenti lo ricordano di nuovo già impegnato nel retablo per la chiesa di Sant’Agostino di Valenza, perduto come il precedente, ma certamente di notevoli proporzioni se veniva pagato ben cinquecentocinquanta fiorini.26 Ora mi pare che questa più precoce presenza dello Starnina a Valenza non sia senza conseguenze sulle ipotesi fin qui fatte intorno alle opere toledane. La possibilità che egli abbia di fatto preso parte alla decorazione della cappella di San Blas, che fu cominciata a costruire tra il 1395 e il 1396 e che nel 1398, al momento della stesura del testamento del suo committente, l’arcivescovo Don Pedro Tenorio, non era ancora finita,27 si fa piuttosto debole, che anche a volerlo immaginare a Toledo tra la fine del ‘95 e l’inizio del ‘98, quando tacciono i documenti valenzani, è difficile credere che egli potesse apparirvi ancora nella forma strettamente deferente ad Antonio Veneziano, che caratterizza quegli affreschi e della quale invece non si avverte alcun riflesso a Valenza.

Quanto allo scomposto e ridipinto retablo già nella cappella del Salvatore, la sua probabile datazione intorno al 1393 (quando cominciano ad apparire notizie archivistiche della dotazione della cappella da parte dei Fernandez28) e i sottili rilievi del Bologna circa l’emergervi, specie nel ‘ripulito’ San Taddeo del Vassar College, di una inflessione leggermente diversa del linguaggio figurativo del Veneziano, ma anche l’inavvertito richiamo iconografico nella ‘Andata al Calvario’ all’analogo soggetto di Niccolò Gerini nell’aula capitolare del San Francesco di Pisa (su cui un tempo era leggibile la data del 139229) lasciano si aperta la possibilità cronologica di un intervento dello Starnina (e quindi di dare in questi termini consistenza al ‘recibo’) ma in una posizione secondaria e cioè entro una impresa che spetta in larga parte ad Antonio stesso, la cui presenza a Toledo non mi sembra ricusabile.

A ulteriormente sostenerla sono giunte a mio parere le due tavole con tre Santi ciascuna e un donatore che il Boskovits ha recentemente aggiunto al catalogo del Veneziano, dove la testa del ‘San Paolo’ ha la stessa forte struttura di quella del ‘San Giovanni Evangelista’ di Toledo e simile è anche la accentuata articolazione plastica delle mani che ritroviamo sempre in Antonio.30 D’altra parte proprio le due nuove tavole sembrano costituire un convincente trait d’union sia con la predella della cappella del Bautismo che con gli affreschi della cappella di San Blas, e in particolare con lo spessore popolare della ‘Crocifissione’ (figg. 12-13)31

fig. 13) Antonio Veneziano, ‘Crocefissione’,
Toledo, Cattedrale,
Cappella di San Blas
fig. 12) Antonio Veneziano:
‘Cacciata dei mercanti dal Tempio’, Toledo, Cattedrale, Cappella del Battesimo

che intensifica le tendenze già apparse nella tavola di ugual soggetto, e dello stesso Antonio, nel Museo pisano, mentre non si può far a meno di rilevare che il collegamento del pur prezioso ‘recibo’ con i lavori della cappella dei Fernandez, nel senso di una partecipazione concreta ad essi dello Starnina, appare abbastanza fragile solo che si dia rilievo al fatto che proprio un raccoglitore di documenti destinati ad una futura storia della costruzione della chiesa e delle sue cappelle (il ‘700 è anche in Spagna un secolo di volonterose ricognizioni del patrimonio artistico più antico) lo catalogava tra le carte di nessuna importanza, ‘entre los ynutiles’.

Va in ogni modo anche ricordato che gli interventi toscani nella decorazione della cattedrale furono probabilmente più ampi di quanto oggi si può presumere se ha comunque un senso la notizia, tramandata da una fonte pur essa tarda, della presenza ivi di Giotto e di suoi lavori nel coro, una notizia che potrebbe avere origine nel carattere evidentemente italianeggiante di quelle ignote pitture e in una confusa tradizione orale.32 E qui il problema si aggancia alla documentata vicenda dell’immenso retablo. destinato all’altare maggiore della cattedrale, che lo stesso arcivescovo Pedro Tenorio aveva commissionato per milleduecento fiorini d’oro nel 1387, a Brihuega, al misterioso pittore ‘Mestre Esteve Rovira alias de Xipre” e che questi, passato nel frattempo dalla Castiglia a Valenza, veniva sollecitato ad eseguire secondo i patti l’anno successivo dall’emissario dell’arcivescovo che lo incontrava davanti al notaio Francisco Çaidia nella casa di ‘Johan Esteve mercader florenti’, le stesse persone che troviamo in rapporto con lo Starnina nel 1395.33

Come la cosa sia finita non si sa, né si hanno notizie successive del retablo. ma è comunque da tener presente il relativamente breve intervallo di tempo (entro il quale cade il momento più aspro e sanguinoso della repressione contro gli ebrei che sconvolse tutta la Spagna cristiana) che corre tra questi fatti e l’arrivo delle maestranze toscane in Castiglia, alle quali fa capo direttamente o indirettamente anche il ‘Maestro di Horcajo’ con i suoi notevoli agganci all’ambiente pisano di fine secolo.34 Restando dunque il complesso toledano in questione sostanzialmente nell’ambito espressivo di Antonio Veneziano e d’altra parte non essendo noti, nonostante la vicenda misteriosa di Esteve Rovira, fatti concomitanti di qualche rilievo, anzi essendo evidente che quelle opere, tavole ed affreschi, furono un essenziale punto di riferimento – come dimostra appunto l’attività di Juan Rodriguez de Toledo ancora nella tavola oggi al Prado, attribuitagli dal Guidol, di Juan de Sevilla ed anche del miniatore di un ‘Pasonario’ della stessa Cattedrale35 – almeno fino all’arrivo di Nicolas France e di Dello Delli in Castiglia, anche ammesso che lo Starnina vi avesse una qualche parte, non è qui che poté maturare il pittore ‘gentile e cortese’ che il Vasari vedeva tornare a Firenze dalla Spagna.

Né d’altra parte c’è ragione di dubitare delle conseguenze drastiche che poté avere su un pittore ancora giovane, quale dopo tutto doveva essere lo Starnina nel 1395, a sette anni dall’iscrizione alla compagnia di San Luca, l’immersione in quel vivissimo centro cosmopolita sul piano artistico non meno che su quello politico e commerciale che fu Valenza a spese della stessa Barcellona, in grave crisi economica fin dagli ultimi due decenni del secolo, mentre i suoi uomini di punta, e tra essi soprattutto il futuro Santo Vincenzo Ferrer e il fratello Bonifacio, giurista, uomo di lettere e di mondo, educato in Italia, facevano la spola tra la città, la corte aragonese, quella avignonese di Benedetto XIII (l’aragonese Pedro de Luna) e la corte di Francia interessata alla composizione dello scisma d’Occidente, i suoi mercanti, tra i quali un cospicuo numero di fiorentini, facevano affarid’oro con tutti, la mano d’opera mussulmana alimentava una ricca produzione artigiana esportata dovunque, e l’intensa attività edilizia pubblica e privata, volta a dare alla città le strutture e l’aspetto che la sua nuova floridezza richiedeva, richiamava architetti scultori e pittori da Barcellona, dai centri della Catalogna edell’Aragona e da fuori della Spagna, secondo una politica di apertura culturale verso la Francia el’Italia cui aveva dato impulso decisivo Pietro il Cerimonioso e soprattutto il figlio Juan I, marito della francese Violante de Bar, nipote di Carlo V, accusati di aver corrotto i severi costumi tradizionali circondandosi secondo l’uso della corte di Francia di una cerchia raffinata di musici e di artisti in gran parte provenienti da fuori.36

Purtroppo delle opere di pittura che, proprio negli anni che più ora ci interessano, furono determinanti accanto alla raffinatezza dei modelli scultorei e di oreficeria nel configurarsi di questo momento ben circostanziato della storia dell’arte spagnola, è rimasto pochissimo nell’incalzare di disastri antichi e recenti, a parte una ricca documentazione archivistica. Si conosce, è vero, un certo numero di retablos, spesso frammentari e malridotti, che si scalano entro il primo quarto del secolo e la cui relativa omogeneità linguistica consente ormai di ravvisare senza troppe difficoltà la fisionomia estrosa, eccentrica del gotico internazionale a Valenza, intessuto di componenti germaniche, franco-borgognone, italiane fuse dal serpeggiante fuoco dell’espressionismo iberico. Ma dei grandi lavori in pubblico del binomio Marçal de Sax Pedro Nicolau ancora entro l’ultimo decennio del ‘300 che lo Starnina vide crescere davanti ai suoi occhi e che dettero il via al fenomeno galvanizzando di riflesso, attraverso gli spostamenti di giovani pittori l’ormai smorzato ambiente barcellonese e il suo maggiore rappresentante Luis Borrassà, nulla rimane: non quelli della Torre di Serranos, né quelli della Sala del Consiglio (dove tra l’altro fu dipinto un ‘Giudizio Universale’) non i retablos per le cappelle della cattedrale che l’importante atelier si assicurava, come risulta dai documenti d’archivio, uno dietro l’altro..37

La coscienza della funzione avuta da Marçal fu tale da tradursi nel 1410 in un atto pubblico significativo: il pittore in difficoltà economiche ed ammalato, a due anni dalla morte di Pedro Nicolau che aveva lasciato in eredità la bottega al nipote Jaime Mateu, otteneva dal Consiglio della città alloggio gratuito per i meriti acquisiti insegnando a tanti a dipingere.38 Della intensa attività svoltasi nel periodo che in questo contesto ci interessa, a Valenza, e della sua accesa temperatura restano ben poche testimonianze: la memoria fotografica del distrutto retablo di Jerica di Lorenzo Zaragoza, dipinto nel 1395-96 (fig. 14),

fig. 15) Lorenzo Zaragoza
‘Madonna con Bambino’, (part.), già a Jérica,
chiesa di San Rocco, distrutto

di un gotico già assai fastoso e complicato, il retablo oggi nel museo di Bilbao, di Pere Nicolau, una delle più antiche tra le sue opere note (fig. 15),

fig. 15) Pere Nicolau, ‘Annunciazione’,
(parte di retablo), Bilbao, Museo

dipinta probabilmente proprio all’aprirsi del secolo (che pone decisamente problemi di rapporti con i centri della cultura artistica francese, del resto documentati dalle carte d’archivio soprattutto nella forma di richieste di codici e di acquisti di arazzi ecc.) il noto frammento di tavola con la ‘Incredulità di San Tommaso’ del Museo della cattedrale di Valenza (fig. 16),

fig. 16) Marçal de Sax ,
‘Incredulità di San Tommaso’,
Valencia,
Museo della Cattedrale

molto probabilmente proveniente dal retablo della cappella dedicata a quel Santo e attribuito a Marçal sia perché risulta che fu lui a riscuotere l’ultima rata del compenso nel marzo del 1400 sia perché sembra in effetti di potervi ravvisare, al di là di certi tratti comuni in seguito alla ‘scuola valenzana’, un fondo di cultura specifica, che non è stato ancora analizzato a dovere, ma che richiama in qualche modo la drammatica asprezza di certe opere più o meno contemporanee dell’area sassone, tra ‘il maestro della Jakobikirche’ di Gottinga e il Konrad von Soest di Wildungen, l’area da cui probabilmente Marçal de Sax ‘aleman’ proveniva.39

Proprio delle aspre marcature fisionomiche di quest’opera, del modo di avvolgersi nel mantello rialzato fino a coprire il capo degli apostoli ricompare vivissimo il ricordo a Firenze nelle opere più antiche del Maestro del Bambino Vispo, nei due ‘Evangelisti’ del Rijksmuseum di Amsterdam, nel frammento con il ‘profeta Osea’ di Palazzo Venezia a Roma (fig.17), nella ‘Dormitio Virginis’ di Chicago (fig.10),  pur ferreamente ordinata entro uno spazio italiano, neogiottesco.40

fig. 17) Starnina, ‘Il profeta Osea,
Roma, Museo di Palazzo Venezia

Delle opere valenzane di ‘Mestre Gerardo Florenti’ ricordate dai documenti, non c’è più traccia, ma sembra del tutto logico doverne cercare la presenza, si vedrà poi fino a che punto diretta, in quell’opera la cui forte se non proprio esclusiva componente italiana, accentuatamente vicina all’ambiente di Agnolo Gaddi, e più specificamente al giovane Lorenzo Monaco, è stata ampiamente riconosciuta e che anche cronologicamente corrisponde perfettamente ai primi anni del soggiorno del pittore fiorentino. Si tratta del noto retablo fatto fare per la Certosa di Portacoeli proprio da Bonifacio Ferrer, probabilmente subito dopo la sua rinuncia allo stato laicale e il suo ingresso nella Certosa (1396) nella quale divenne priore (1400) e generale dell’ordine (1402).41

Gli studiosi spagnoli, specialmente il Saralegui, hanno ben messo in evidenza che il retablo si articola in una serie di soggetti che svolgono il tema della ‘grazia’, ordinati da persona dotta in materia teologica e con specifico riferimento, per certi aspetti, ai casi della vita del committente che compare ad una delle estremità della predella, in abito certosino, con due suoi figlioli maschi, mentre dalla parte opposta è raffigurata la moglie con le sette figlie femmine circondate dai raggi della beatitudine celeste perché tutte già morte al momento della vestizione del padre.42 Ma la cultura figurativa dell’opera, pur nel variare delle opinioni sul nome del suo autore, è stata invece troppo superficialmente analizzata anche nelle prese di posizione più recenti.

In effetti il retablo si presenta allo stato attuale delle conoscenze come un unicum a Valenza di complessa e stratificata cultura che rimanda per un verso, elaborandola in senso accentuatamente tardogotico, alla più valida pittura fiorita negli ultimi quindici anni del ‘300 tra Firenze e Pisa, dall’altra si riveste di tratti delicatamente esotici e di finezze miniaturistiche di inflessione francesizzante. Già nella ‘Crocifissione’ (fig. 18)

fig. 18) Starnina e collaboratori, ‘Crocifissione’,
(parte del retablo Ferrer),
Valencia, Museo San Carlo

al centro dove la figura del Cristo appare circondata da sette scenette raffiguranti i Sacramenti entro cornici mistilinee decorate a punzone sul fondo d’oro, è evidente la commistione sensibilissima tra dati di cultura strettamente italiana e un eccedente sentimento patetico che si esprime attraverso accentuazioni fisionomiche e particolari di derivazione nordica.

Il corpo snello e allungato del Cristo fasciato fino alle ginocchia dal perizoma sottilmente raccolto sui fianchi riprende affinandone la tensione patetica un modulo comune di tardo trecento toscano che ritroviamo, per esempio, intorno al ‘90 nelle Crocifissioni del Cristiani, nella sagrestia di San Francesco a Pistoia, o di Spinello nel trittico del San Francesco di Pisa e del giovane Lorenzo Monaco. Ma il volto sofferente del Cristo, le labbra socchiuse sui denti, i lunghi capelli sparsi in ciocche sudate sull’omero stirato, soprattutto il grosso intreccio della corona di spine spaventosamente aguzze fuoriesce dai canoni del sentimento italiano e trova le sue affinità piuttosto in area francese, dal paramento di Narbonne alla ‘Grande Pitié ronde’ di Malouel (fig. 23).

fig. 23) Starnina e collaboratori, ‘Crocefissione’,
Valencia, Museo San Carlos

La stessa oscillazione tra fermezza di disegno toscano ed esotiche caratterizzazioni è nelle dolenti avvolte nei manti che scendono a coprire la fronte e gli occhi chiusi nel pianto e negli assistenti di destra. Nelle scene dei Sacramenti si impone di forza sopra ogni altro particolare la ricerca indiscutibilmente italiana nella sostanza e nei modi particolari della definizione d’ambiente, il senso del rapporto tra figure e architetture, quel rapporto di cui Antonio Veneziano e Spinello avevano raccolto i suggerimenti nella più pura tradizione giottesca, in Giovanni da Milano, per svilupparli l’uno negli affreschi pisani, l’altro a San Miniato e nelle mirabili predelle di Parma, di Budapest o in quelle di collezione privata pubblicate dal Bellosi, ma che penetrava profondamente anche nel giro dei miniatori del convento di Santa Maria degli Angeli, da Don Silvestro a Don Simone, all’anonimo autore del codice Rossiano 1192a della Biblioteca Vaticana44.

fig. 19) Starnina e collaboratori, ‘Angelo annunciante’,
(parte del retablo Ferrer), Valencia Museo San Carlos
fig. 22) Starnina e collaboratori, ‘Annunciata’,
(parte del retablo Ferrer), ValenciaMuseo San Carlos

A Valenza nelle scene qualitativamente  più alte, nella ‘Penitenza’, nella ‘Eucarestia’, nel ‘Matrimonio’ (figg. 20-21),

fig. 21) Starnina e collaboratori, ‘La Eucarestia’, Valencia, Museo San Carlos
fig. 20) Starnina e collaboratori, ‘La Penitenza’, Valencia, Museo San Carlos

tutte sul lato destro, le pareti riquadrate dalle arcatelle e spartite dalle lunghe specchiature rettangolari, lo sfuggire dei soffitti cassettonati, l’aprirsi degli archi sulle absidiole e sui vani laterali, fin la larghezza spaziosa delle vele, che pur, unica concessione al colore locale, sono ritmate dal gioco delle pronunciate chiavi di volta pendenti, tutto rimanda alla cultura di un pittore toscano formatosi nell’ambito dei fatti citati, i cui interessi, ora sollecitati dalla particolarità del formato, attingono a soluzioni da miniatore nell’accordare cornici ed elementi architettonici dipinti, nella delicata tecnica pittorica, nella fluidità dei panneggi. E sotto questo aspetto, specie nella ‘Penitenza’, di nuovo si avverte l’eco di modi francesi, delle mirabilia che uscivano dalle mani dei miniatori del Duca di Berry e più particolarmente delle opere più intinte di cultura italiana, quelle del giro di Jacquemart de Hesdin, di cui i legami con Avignone dovevano facilitare la conoscenza, come ben documenta in ambiente barcellonese, (ma sui passaggi continui tra Valenza e Barcellona non c’è dubbio) non solo la diretta derivazione della perduta ‘Madonna con il Bambino’ di Santa Maria del Mar a Barcellona da quella del ms. 346 della Morgan Library,. sottolineata da M. Meiss, ma anche e sempre a Barcellona il citato codice di Santa Eulalia di Rafael Destorrent, ben inserito in un’area di cultura lombardo-francese.45 In questo contesto, benché i tempi siano appena più tardi, andrà ricordata la documentata richiesta di re Martino da Valenza, nel 1406, al vescovo di Lerida che gli si copiasse la ‘historia’ degli angeli guardiani dipinti nella cappella di San Michele del palazzo papale di Avignone.46 Questo più ampio giro di cultura segna profondamente, oltre alla ‘Penitenza’, la ‘Pietà’ della predella, la bellissima ‘Annunciata’ del pinnacolo destro (fig. 22), accovacciata alla orientale sul tappetino rosso davanti al cespo fiorito, cresciuto ai bordi di uno specchietto d’acqua tra le rocce, che allunga il suo stelo rampicante lungo tutta la centina, un pensiero degno delle parigine ‘Très Belles Heures de Notre Dame di Jean de Berry’.

Ma il rapporto vitalizzante fornisce vigore e ritmo nuovo anche agli elementi che più chiaramente dipendono dal precedente toscano: per esempio, nel ‘Battesimo’ del pannello di destra, al taglio netto delle rocce avventanti che pur muovono da certe acute profilature di Spinello e di Agnolo, e al complesso raccogliersi dei mantelli nelle figure inginocchiate del Battista, degli angeli e del Padre Eterno fra le nuvole, che, partendo a loro volta in prossimità di Agnolo e delle opere che sono state proposte per gli inizi di Lorenzo Monaco47 si risolve in modi affini a Jacquemart e a Beauneveu. E lo stesso può dirsi del pannello di sinistra anch’esso irto di rocce affilate, incurvate come daghe, tra le quali emergono i cavalieri catafratti guardando stupiti la clamorosa caduta di San Paolo, che si rovescia come il più inesperto dei cavalieri. Nella predella, ai lati della ‘Pietà’ la stessa cultura toscana arricchitasi di ritmo e di fantasia di nuovo si accenta alla spagnola derivando dai Serra e dal giovane Borrassà nella tenera serie delle figlioline di Bonifacio Ferrer coronate di rose e guidate dall’austera consorte, ma si impone intatta e con tutta evidenza nella vigorosa ‘Lapidazione di Santo Stefano’ (fig. 24)

fig. 24) Starnina e collaboratori,
‘Lapidazione di S. Stefano’, (parte del retablo Ferrer),
Valencia, Museo San Carlos

dove il gesto impetuoso del lapidatore che prende lo slancio come un lanciatore di giavellotto ha alle spalle tutta una tradizione che va dalla predella del Daddi nella Pinacoteca Vaticana al celebre esecutore del ‘crurifragio’ nella ‘Crocifissione’ del Camposanto di Pisa e trova un singolare parallelo, ma indiscutibilmente più debole, nel pannello con lo stesso soggetto attribuito a Lorenzo di Niccolò nella coll. Kress dell’Arkansas Center di Little Rock.48

Di chi può essere dunque quest’opera che riflette con forte capacità di sintesi i fatti salienti della pittura fiorentina almeno fino all’inizio degli anni ‘90 e nello stesso tempo si arricchisce di discrete allusioni alla più nuova cultura transalpina? Il Boskovits suggerisce il nome di Miguel Alcañiz, che qui vedremmo ai suoi inizi, fortemente influenzato dalla cultura portata a Valenza dallo Starnina. Ora non si può davvero negare che certi passi del retablo in questione trovino qualche rispondenza nel retablo della Santa Cruz di Valenza e in altre opere del pittore spagnolo, ma sono, a mio parere, rapporti che investono l’esecuzione materiale di certe parti, specie proprio le più deboli (per esempio il ‘Giudizio’ della cimasa) con il conseguente affiorare di qualche tipica deformazione fisionomica: non toccano l’invenzione, il ritmo, l’alta qualità pittorica dei brani più significativi, non l’impostazione sicura ed agile dei movimenti, lo svettare tagliente delle cime montuose, il gusto insistente della determinazione spaziale, di cui è appena una confusa eco nelle opere certe di Alcañiz, con la tipica disarticolata mollezza dei personaggi ammassati e insaccati nei roboni informi, la meccanica sigla del panneggio, lo stereotipato ripetersi di volti sempre uguali, delle mani aperte a ventaglio o inutilmente chiuse su un oggetto che non riescono né ad afferrare né a reggere. E se questo è vero, e in teoria giustificabile con un lungo lasso di tempo trascorso fra i due momenti, non potrà in nessun modo essere accettabile se vi si frapponga l’attività fiorentina del ‘Maestro del Bambino Vispo’, dove proprio quei valori di spazio empiricamente ma sostanziosamente risolto, di ordine nella vivacità della narrazione, di elastica consistenza corporea e di sottile individuazione mimica, reggono senza incertezze la ricca e costumata galleria dei Santi e le brillanti predelle e pannelli vari che il pittore ha dipinto.

Solo tra queste opere e il retablo di Bonifacio Ferrer il legame è certo nonostante l’evidente interporsi di arricchimenti e di ripensamenti profondi, e si sostanzia anche della identità di particolari tecnici e di gusto decorativo: per esempio lo stesso fine e tipico motivo di dischi d’oro bulinati liberamente a mano ritorna nella veste dell’angelo annunciante di Valenza (fig, 19), nella tenda che scende dalla spalliera del trono a ricoprire il sedile e tutto il primo piano nella ‘Incoronazione’ di Parma (fig. 25),

fig. 26),Starnina,
‘Dormitio Virginis’, Philadelfia, Coll. Johnson
fig. 25) Starnina, ‘ Incoronazione della Vergine’, Parma, Museo

nel panno steso sotto la Vergine morta di Philadelphia (fig. 26) (e identico è il modo di ombreggiare sull’oro le pieghe della stoffa leggera); un motivo quasi identico di grandi ricami d’oro sul tessuto bianco accomuna la veste di San Paolo a Valenza con quella della Madonna di Würzburg e della paletta con la ‘Madonna eil Bambino, angeli e Santi’ dell’Accademia di Firenze, la stessa maniera di lasciare aggallare tra le velature rosate della pelle e il rosso acceso delle guance il fondo verde della preparazione dei volti e delle mani si riscontra in particolare nella Annunciata e nel Martirio di San Sebastiano di Valenza e in tutte le opere del Maestro del Bambino Vispo.

D’altra parte anche considerazioni di carattere cronologico ostacolano l’ipotesi del lungo soggiorno fiorentino di Alcañiz: non è ragionevole ritenere che il retablo della Santa Cruz per la cappella Pujades della chiesa di San Domenico, fondata da Nicolas Pujades ‘Baile general de Valencia’ nel 1397, dove sua moglie doña Paula risulta già sepolta nel 1400, non fosse completato neppure nel lasso di tempo che corre tra il suo testamento (1403) e la sua morte (1409).49 Caratteri affini a quest’opera compaiono presto, probabilmente facilitati dal ritorno da Valenza a Barcellona nel 1408 di Gerau Gener, collaboratore di Marçal e di Gonzalo Peris, nelle tavole di Borrassà, per esempio nella ‘Pietà’ di Manresa (c. 1410-11).50 Ma anche più decisivo risulta quel documento del 2 aprite 1408 pubblicato da Cervero y Gomis,  non proprio chiarissimo nei suoi termini particolari ma nella sostanza abbastanza comprensibile, da cui risulta che l’Alcañiz aveva contratto un prestito sul salario di quindici fiorini d’oro con Pere Nicolau e che Gabriel Sanç mercante e Ferrando Perez pittore si facevano garanti del pagamento entro il veniente giorno di San Giovanni.51

Così stando le cose pare incontrovertibile che l’Alcañiz sia rimasto in Spagna a rimuginare per sempre e via via sempre più stancamente le sue giovanili esperienze che dovevano attingere anche al grande retablo lasciato dallo Starnina in Sant’Agostino, forse dedicato proprio al ciclo della Passione (la predella del retablo già ad Alpuente rispecchia con maggiore immediatezza questo momento), ma esposto alla crescente influenza di Marçal e di Pere Nicolau. come ben dimostra già il retablo Pujades.52

Nello stesso tempo appare più che mai probabile che il problema della identità del Maestro del Bambino Vispo e quello ad esso collegato dell’autore del retablo Ferrer debba ricollegarsi all’unico nome italiano perfettamente confacente ai dati messi in evidenza che la ricca documentazione archivistica valenzana ha portato alla luce. Nulla osta perché quel delicato amalgama di cultura toscana e di nuove esigenze tardogotiche (e vorrei ritornare alla selvatichezza acuminata ed elegante del Battista inginocchiato sulle rive del Giordano a fronte della dolcezza spinelliana degli angeli attenti con le vesti in mano) sia nato nella bottega aperta a Valenza almeno dal 1395 al 1401 dal fiorentino Starnina, ma in un rapporto di stretta collaborazione, del resto prassi costante in Spagna specie nell’esecuzione di un retablo, che dovette vedergli accanto probabilmente il giovane Alcañiz e forse qualche altro aiuto già sensibile alla lezione della miniatura francese, senza escludere che qualche tratto anche in questo senso convenisse in quegli anni alla sua stessa persona.

La scarsissima conoscenza che oggi abbiamo dell’ambiente artistico di Avignone negli anni di Benedetto XIII, dove Bonifacio Ferrer era di casa, e la carenza di testimonianze valenzane non solo per quanto riguarda lo Starnina ma anche gli inizi di personalità notevoli che conosciamo solo per opere un poco più tarde e più caratterizzate in senso valenzano, come Gonzalo Peris, figlio di un Antonio, identificato recentemente con l’italianizzante ‘Maestro di Olleria’ che ha rapporti solidi anche con Alcañiz53 o Jaime Mateu. e tanti altri, non consente di dire di più, né di dar corpo alla notizia, che si trova già nel Libro di Antonio Billi ed appare assai interessante, che il pittore fiorentino fu in Francia oltre che in Spagna.54 Non sembra invece ancora rilevabile nel retablo Valenzano l’impressione delle pungenti caratterizzazioni, derivate soprattutto da Marçal, che pur rielaborate personalmente compaiono poi nelle opere più antiche del gruppo fiorentino, per cui si può credere che la consacrazione dell’altare della Certosa nel 139755 dovette vedere il retablo se non già compiuto in via di rapido completamento.

A questo punto non resta ormai che affrontare il confronto diretto di quel pochissimo che rimane degli affreschi starniniani di Firenze e di Empoli con le opere da tutti riconosciute al Maestro del Bambino Vispo. Provenienti dalla cappella di San Girolamo al Carmine,56 le otto edicole esagonali che ospitano altrettante figure, quattro Santi e quattro Sante, concluse da arcatelle trilobate e coperte all’interno da volticelle a nervature taglienti, propongono una variante arricchita del consueto motivo architettonico-decorativo su cui incide chiaramente il gusto delle nicchie con copertura sporgente e intagliata che accolgono le statue nei portali e nei cori delle chiese gotiche d’oltralpe e in quelle di Spagna (fig 27).

fig. 27) Starnina,
‘San Bernardo’,
Firenze, Chiesa del Carmine
fig. 27) Starnina,
‘Santa Martire’,
Firenze, Chiesa del Carmine

E il risultato, nonostante lo spessore delle membrature è così agile e scattante nei profili tesi, gli scorci e i sottinsù, da porsi come una novità assoluta cui dovette guardare subito Lorenzo Monaco e nello stesso tempo come uno sviluppo di quel già vivo interesse per il complicato intersecarsi di spazi architettonici che si osservava nelle storiette del retablo di Bonifacio Ferrer.

Quanto ai Santi che si inquadrano con statuaria corposità entro le edicole, è davvero difficile negare che il largo scendere e raccogliersi molleggiando a terra della bella veste bianca dell’acefalo San Bernardo (fig. 28) (e così, per quel che si vede, del vicino Sant’Antonio Abate) quell’insistente scorcio del braccio e della mano che impugna saldamente l’asta del pastorale e quel girare lento e complicato della larga manica intorno al braccio sinistro, formando occhielli e lunghe sacche ombrose, comporti assai più che una affinità con il fare del ‘Maestro del Bambino Vispo’, anzi direi proprio quella identità in profondo del modo di fare le cose che, anche quando non consente la prova per sovrapposizione, si impone con l’evidenza assoluta dell’unità stilistica pur attraverso gli svolgimenti nel tempo. E dove trovare un compagno al pensoso San Benedetto (fig. 29),

fig. 29) Starnina,
‘Santa Benedetto’,
Firenze, Chiesa del Carmine
fig. 30) Starnina,
‘Sant’Antonio Abate’,
Firenze, Chiesa del Carmine

che raccoglie la veste rinnovando con qualche ricercatezza l’antico gesto giottesco e la cui barba vistosa resa con pittorica sicurezza anticipa quella già più rifilata dell’omonimo Santo del pannello di Stoccolma, se non tra i vecchioni della celebre ‘Decapitazione di una Santa’ di Londra o tra gli Apostoli e gli anziani barbuti usciti o uscenti dagli avelli nel ‘Giudizio Universale’ di Monaco? Qui è anche il punto di riferimento più agevole, perché cronologicamente più vicino, della testa arrotondata dalla calvizie del citato Sant’Antonio Abate (fig. 30),

che ci guarda tra le ampie lacune con un occhio solo, ma che si può facilmente completare con il bellissimo pannello rappresentante lo stesso Santo di cui Luciano Bellosi mi ha cortesemente fornito  la foto e l’indicazione (fig. 31 ).

fig. 31) Starnina,
‘Sant’Antonio Abate’,
Firenze, Ufficio Esportazione

Quanto poi alle Sante, anche più brutalmente massacrate dalle vicende toccate alla Cappella, che cosa di più vicino alle Sante che fiancheggiano la Madonna di Würzburg o ancora meglio alla splendida ‘Madonna con il Bambino’, pubblicata dalla Longhi,57 di questo volto dalle guance dolcemente rotonde incorniciate dai lunghi capelli, coperto dal mantello azzurro che si stinge in rosa carminio, incarnazione di una nuova ‘umanità gentile e cortese’ di cui solo Gentile da Fabriano poteva dare allora l’equivalente (fig. 32)?

fig. 32) Starnina,
‘Santa Martire’,
Firenze, Chiesa del Carmine

Identico è fin il modo di disegnare, nonostante la diversità della tecnica, la forma dell’occhio e della pupilla e l’ombra lieve agli angoli della bocca e fortissimo è il legame con la citata Madonna e la Santa Lucia di Jerica di Lorenzo Zaragoza (fig. 14), un rapporto ormai difficilmente districabile di dare e di avere che non potrebbe allargarsi se non per assai più superficiali affinità alla ‘Madonna con il Bambino’ di Alcañiz un tempo nella coll. Apolinar Sanchez di Madrid, pubblicata dal Post.58.

Né si fatica troppo ad intendere anche dai pochi frammenti residui che Santa Agnese, Santa Reparata e la quarta anonima Santa che regge la palma del martirio con la stessa presa sofisticata, come ben osservava il Bellosi, della Santa Margherita di Würzburg (una articolazione derivata probabilmente da qualche modello scultoreo, come il ripiegamento accentuato della gamba del Bambino nella citata paletta dell’Accademia)59 dovevano essere della stessa razza raffinata, di cui resta solo pallido commento la vivacità ridente e festosa della gamma cromatica nelle vesti e nei mantelli. Delle ‘Storie della vita di San Gerolamo’ che più avevano attratto l’attenzione del Vasari non resta che la memoria grafica di due di esse e di qualche testa conservataci da Seroux-d’Agincourt (figg. 33, 34)60

fig. 33) Da Starnina, ‘Avvertimenti di San Girolamo in punto di morte’, (dalla ‘Historie de l’Art’ di Seroux -d’Agincourt)
fig. 34) Da Starnina, ‘Esequie di San Girolamo’,
(dalla ‘Historie de l’Art’ di Seroux -d’Agincourt)

e il brandello di affresco con una nicchia colma di libri (fig. 38) in accentuata prospettiva che attraverso quelle incisioni sappiamo essere appartenuta alla scena che raffigurava il Santo sul letto di morte, intento a dettare ai discepoli i suoi ultimi avvertimenti.  Ma il sussidio assai poco considerato offertoci dallo studioso francese appare davvero prezioso, ché, nonostante la generica fedeltà delle incisioni allo specifico tratto stilistico degli originali e la inevitabile lettura in chiave più moderna, ci consegna netto il ricordo della felice struttura spaziosa delle due scene e della vivacemente caratterizzata partecipazione degli astanti alle esequie.

L’una e l’altra coincidono perfettamente con i valori più significativi delle opere appunto del Maestro del Bambino Vispo, con il pausato e sicuro ordinare le figure nello spazio delle sue varie edizioni della ‘Dormitio Virginis’, della predella del polittico Acciaioli,61 con la intensa partecipazione affettiva in gesti e volti espressivi di quella varia accolta di personaggi, con il movimento a larghe e flessuose cadenze dei loro mantelli. Altri disegni non utilizzati poi nella pubblicazione, tratti da due teste di cantori delle esequie, da quella del monaco leggermente piegato ai piedi del letto e da un’altra figura oggi non più ravvisabile si conservano ancora nell’esemplare della Biblioteca Vaticana (Vat. lat. 9847, 31r, 31 v., 27 v.) di Seroux-d’Agincourt (figg. 37, 38),

fig. 36) Da Starnina,
‘Testa di astante alle ‘Esequie di San Girolamo’, Roma, Biblioteca Vaticana, Cod. Vat. Lat. 9847, f. 31r
fig. 37) Da Starnina,
‘Due cantori alle ‘Esequie di San Girolamo’, Roma, Biblioteca Vaticana, Cod. Vat. Lat. 9847, f. 31v
fig. 35) Da Starnina,
‘Testa di Astante agli avvertimenti di San Gerolamo’, (dalla ‘Historie de l’Art’ di Seroux -d’Agincourt)

amichevolmente indicatomi da Giovanni Previtali: e questi, assai più attenti alle particolarità del testo originale che non lo siano per le ridotte proporzioni le incisioni, ci consentono, specie i primi due, attraverso la resa sommaria della corona dei capelli, la solida struttura della testa, la tipica accentuazione del setto nasale, il disegno della bocca aperta dei cantori, di risalire anche più sicuramente alle modalità dell’ormai si spera non più anonimo ‘Maestro del Bambino Vispo’.

fig. 38) Da Starnina, ‘Avvertimenti di San Girolamo’, (part.),Firenze, Chiesa del carmine

Ma le incisioni di Seroux-d’Agincourt ci sono utili anche a ravvisare un sicuro ricordo di queste ‘storie’ nella predella che Francesco D’Antonio pose sotto il trittico oggi a Grenoble,62 un fatto che dovrà essere tenuto presente in un eventuale riesame della profonda influenza esercitata dallo Starnina – Maestro del Bambino Vispo, non solo sui contemporanei più pronti a trarne personalmente vantaggio (Lorenzo Monaco almeno dal trittico di Empoli del 1404, Rossello di Jacopo il cui ‘San Biagio’ del Duomo di Firenze, datato 1408, mi pare possa riflettere il perduto ‘San Dionigi’ del Palazzo di Parte Guelfa e naturalmente il suo più pedestre imitatore il ‘Maestro di Borgo alla Collina’, autore già nel 1408 di quella ‘Assunzione’ di Stia che è un certissimo ante quem per molte opere dello Starnina63 nonché, un poco più tardi, Giovanni dal Ponte, Parri Spinello, il ‘Maestro del 1419’) ma anche su certi più tardi fenomeni di resistenza gotica.

fig. 40) Starnina,
‘San Giovanni Battista,
Empoli, Museo
fig. 39) Starnina, ‘Sant’Andrea’,
Empoli, Museo

Non pare sia necessario insistere oltre sui palmari raffronti che è possibile istituire fra i frammentari affreschi di Empoli (figg. 39, 40) e tutta una serie di opere, dal ‘Giudizio universale’ di Monaco all’affresco con la ‘Resurrezione di Lazzaro’ (fig.41) del museo di Santa Croce, alla ‘Dormitio Virginis’ di Philadelphia. A concludere per ora il discorso sarà perciò opportuno rilevare che, così restituito, lo Starnina viene degnamente a rioccupare nell’orizzonte della pittura fiorentina dei primi decenni del secolo il posto che il Vasari gli assegnava facendone il battistrada delle ‘bizzarrie’ del gotico estremo e insieme il maestro di Masolino.

fig. 41) Starnina, ‘Resurrezione di Lazzaro’,
Firenze, Museo di Santa Croce

La stessa attribuzione allo Starnina della celebre ‘Tebaide’ degli Uffizi, sostenuta dal Procacci, sia che si debba al suo antico possessore, il conoscitore settecentesco Enrico Hugford, che ebbe modo di vedere gli affreschi del Carmine, sia che si debba ad una tradizione più antica64 non è priva di significato: perchè pur essendo indiscutibile anche a mio parere la collocazione dell’opera entro la cerchia di coloro che subito intesero le novità di Masaccio (e il Longhi pensò convincentemente al giovane Angelico),65 l’errato riferimento poggia su relazioni e ricordi del più antico pittore che pungono vivamente sotto il nuovo assetto formale e spaziale e dei quali proprio l’Angelico sembra essere stato anche in altra occasione l’acuto mediatore entro un nuovo contesto.

Forse il riesame della più antica ‘Tebaide’, di cui i frammenti sono parte nel Museo Esztergom di Budapest parte in collezione privata londinese, recentemente portati all’attenzione degli studiosi66, consentiranno di chiarire definitivamente il problema nell’ambito dello stesso Starnina la cui influenza anche su pittori minori, tra cui Mariotto di Nardo, che ne riflettono la presenza nei termini di una cultura ancora trecentesca va pur essa riconsiderata. Ma il non facile riordinamento cronologico e la revisione, sulla base delle considerazioni fin qui fatte sull’ormai abbastanza ampio catalogo dello Starnina, dei disegni a lui attribuiti67 nonché delle nuove prospettive che la sua presenza e la datazione delle sue opere introduce nelle relazioni con l’ambiente fiorentino dei primi quindici anni del Quattrocento sarà compito di altro momento.


Note

1) J. Van Waadenojien A proposal for Starnina: exit the Maestro del Bambino Vispo? in ‘The Burlington Magazine’ febbraio 1974. pp. 82-91 Nel testo e nelle note sono ricordati i maggiori contributi alla conoscenza del Maestro del Bambino Vispo e dello Starnina che precedono la data di pubblicazione.

2) J. Van Waadenoijen. op. cit, p 89. nn 39 e 40.

3) L. Bellosi. La mostra degli affreschi staccati al Forte Belvedere, in ‘Paragone’ 201. 1966. pp. 75-74 fig 64a e 64b; si veda anche L. Berti, Masaccio, 1964, p. (38. n. 132 e L Bellosi, La  pittura tardogotica in Toscana. ‘Maestri del colore’ n 239; Idem, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, 1974 p 107 n. 102; idem La mostra di Arezzo in ‘Prospettiva’, n 3, 1971, pp 55-60.

4) F. Bologna, Un altro pannello del retablo del Salvatore a Toledo; Antonio Veneziano o Gherardo Starnina? in ‘Prospettiva’ n 2, 1975, pp 43-52. Nel testo e nelle note si fa riferimento ai pareri precedentemente espressi sulle opere toledane e su quella della collezione americana.

5) M. Boskovits Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento. Firenze 1975 pg. 155-151 e note relative. Vi si accenna anche ad un parere espresso oralmente dallo Zeri intorno alla appartenenza ad Antonio Veneziano degli affreschi di piùalta qualità della cappella di San Blas.

6) A. Gonzales Palacios Posizione di Angelo Puccinelli, in ‘Antichità viva’ 1971, p. 9 n X. si veda anche M. Boskovits. op. cit., 1975. p. 255, n. 231.

7) M. Boskovits. Il Maestro del Bambino Vispo: Gherardo Starnina o Miguel Alcañiz?;in ‘Paragone’ 1975 n. 307 pp. 3-15.

8) Si veda n. 1.

9) R. Longhi Fatti di Masolino e di Masaccio, in ‘La critica d’arte’ 1939-40, p 113 n 20 (ripubblicato in Fatti di Masolino e di Masaccio ed altri studi sul Quattrocento, 1975, p 51. n. 20). Idem, Un’aggiunta al Maestro del Bambino Vispo (Miguel Alcañiz?) in ‘Paragone’. 185, 1965, pp. 38-40 L’opinione è ripresa, ma con qualche dubbio, da J. Gudiol Ricart Pintura gotica, Ars Hispaniae IX, I955. pp. 149.150 e da M. Laclotte. Trésors de la peinture espagnole, catalogo. Parigi 1963. pp. 31-35.

10) M. Boskovits, Il Maestro…, op. cit., 1975, p 14 n. 23.

11) Per un più ampio confronto fotografico si veda l’apparato illustrativo dei testi di B. Berenson. Italian Pictures of the Renaissance, Florentine School, 1963, I, figg. 469-482; R. Fremantle. Florentine Gothic Painters, 1975, figg. 914-935 (dove tuttavia è da tener conto che le opere del ‘Maestro del Bambino Vispo’ fanno corpo con quelle del suo approssimativo e ormai ben distinto imitatore il ‘Maestro di Borgo alla Collina’ sul quale si veda soprattutto A. Maetzke in Arte nell’Aretino, catalogo. 1974. scheda n. 27, pp. 77-79, figg. 101-103); A. De Bosque. Artisti italiani in Spagna, ed. ital. 1961. pp 61-107. Il retablo già nella collezione Tortosa ad Onteniente, dedicato alla Vergine e a San Marco, pubblicato per la prima volta dal Seralegui. Intorno a Pedro Nicolau in ‘Archivo de arte Valenciano’ 1933, pp. 25-52. e poi in parte come del Gil-Master dal Post (VI, fig. 245) è passato a Valenza in coll. Serra-de Alzaga ed è stato presentato alla mostra del 1973 dedicata al Siglo XV valenciano (catalogo, pag. 36. fig. 14).

12) Un po’ meno nota delle altre due, misura cm. 18×50; ricordata anche da L. Bellosi, op. cit., ‘Maestri del colore’, 239.

13) G. Pudelko. The Maestro del Bambino Vispo, in ‘Art in America’ XXVI, 1931, pp. 47-63.

14) J. Van Waadenoijen, op cit. p. 85. n 7.

15) La rappresentazione delle anime uscenti dai sarcofaghi rettangolari (che ritorna soprattutto in scultura) e quella di personaggi di alta estrazione sociale si ritrova negli stessi anni in uno dei retablos, quello dell’eremo di San Bartolomeo, di Villahermosa del Rio (Castellon) che sono oggi ritenuti opere di Francisco Serra II rappresentante a Valenza di una cultura catalana più antica (L. De Saralegui, Fuenes del influjo catalan in tierras de Valencia. El Maestro de Villahermosa… in ‘Archivo de Arte valenciano’ 1935 p. 25) Non sappiamo invece niente sull’iconografia usata da Marçal de Sax nel suo ‘Giudizio’ dipinto su una delle pareti della Sala del Consiglio a Valenza, pagato nel 1396. Per il famoso codice di Santa Eulalia e la sua documentata esecuzione per mano di Rafael Destorrent si veda J. Dominguez Bordona-J Ainaud Miniatura, Grabado, Encuadenacion, ‘Ars Hispaniae’, XVIII, 1958. pp. 163 164 fig. 206 Naturalmente questi fatti concomitanti non hanno niente a che fare con il senso veramente giottesco dello spazio che l’autore del ‘Giudizio’ di Monaco dimostra.

16) Per queste vicende tra molte altre fonti, F Soldevila. Historia de Catalunya. II ed. 1962. Proprio da Valenza nel 1403 re Martino mandava a chiedere all’abate di San Cugat del Valleés un aiuto per un suo miniatore che attendeva al Breviario oggi conservato a Parigi (Bibl. Nat. Rotschild 2529) promettendo di restituire il favore ad opera compiuta, inviando a sua volta il suo pittore all’abate (J. Porcher, Le Bréviaire de Martin d’Aragon. Parigi [1952]). Tre anni dopo, e sempre da Valenza, re Martino chiedeva che gli si copiassero per una sua cappella gli angeli dipinti da Matteo Giovannetti nella torre della Guardaroba ad Avignone (vedi più oltre nel testo). Queste lettere sono un’ulteriore prova dei fitti scambi culturali sia all’interno del territorio del regno sia con i centri artistici fuori di esso di cui ha tenuto poco conto la storiografia spagnola.

17) Per tutta la storia della cappella e dell’incendio della chiesa che l’ha distrutta, nonché per i tentativi di ricostruzione della personalità dello Starnina precedenti al recupero degli affreschi frammentari, si vedano le fondamentali ricerche di U.Procacci. L’incendio della chiesa del Carmine, in ‘Rivista d’arte’ XIV, 1932. pp.. 141-232; Gherardo Starnina, I, in ‘Rivista d’arte’ 1933, pp. 151-190; 11. in ‘Rivista d’arte XVII, 1935, pp. 333-384; III, in ‘Rivista d’arte’ XVIII,1936, pp. 77-94.

18) Rintracciato da O. H. Giglioli, Su alcuni affreschi perduti dello Starnina in ‘Rivista d’arte’ 1905 pp. 19-21. Si veda anche U. Procacci, op. cit., 1936; idem. Sinopie e affreschi, 1961 p 227.

19) G. Vasari. Le vite. 1568 ed. per il Club del Libro, II. 1962, p. 31.

20) P. Toesca. La pittura fiorentina del Trecento, 1929, p 67 n. 32; idem, Il Trecento. 1951. pp 649-650 n. 171.

21) C. Gamba. Induzioni sullo Starnina in ‘Rivista d’arte’ 1932 pp. 55-74. L’analisi del Gamba è importante soprattutto per aver portato l’attenzione sull’esistenza di una comune radice tinta di esotico a cui attingono Lorenzo Monaco, Giovanni del Ponte, Rossello di Jacopo, il Maestro del Bambino Vispo, Parri Spinello. Masolino, il Ghiberti delle vetrate, radice che egli identifica con lo Starnina ritornato di Spagna.

22) Si veda il riepilogo della questione in U. Procacci, op.cit. 1935; non mi sembra da escludere un riesame del problema nel senso indicato dallo studioso.

23) Il documento è stato pubblicato da A. Vegue y Goldoni, Gerardo Starnina en Toledo in ‘Archivo español de Arte y Arqueologia’, 1930. p 201 ed è il pilastro delle attribuzioni allo Starnina delle opere toledane. Lo stesso ricercatore in un successivo articolo dello stesso anno e della stessa rivista (La dotacion de Fedro Fernández de Burgos en la catedral de Toledo y Gerardo Starnina, pp. 277-279) trascrive da un documento del 1387 che Pedro Fernández era ‘veedor de la obra de la dha Eglesia’. il che rende meno stretto il rapporto tra la presenza dello Starnina e la cappella della famiglia, in quanto qualunque suo intervento nella cattedrale doveva passare presumibilmente dalle mani del ‘veedor’.

24) Sulle precedenti opinioni intorno a questo pezzo:  F. Bologna, op cit, 1975, pp 43-46 e M. Boskovits. La pittura…, cit. 1975. p. 254. n 292.

25) F. Almarche Vásquez, Mestre Esteve Rovira de Chipre, in ‘Archivo de Arte valenciano’ 1920, pp. 3-13 e specificamente a p. 10.

26) I documenti relativi agli anni 1398-1401, resi noti da Sanchis y Sierra. Pintores medievales en Valencia, 1912 sono stati riportati anche da U. Procacci. op. cit.1936.

27) Si veda la bibliografia citata da A. De Bosque. op. cit., 1936. Una recentissima ricerca (A. Sanchez Palencia, La capilla del Arzobispo Tenorio in ‘Archivo Espanol de Arte’, 1975, n. 189. pp 27-42) farebbe ulteriormente slittare l’inizio della costruzione, almeno al I397.

28) A. Vegue y Goldoni, op. cit., 1930. p. 278.

29) La data non vi compare più ma è riferita da A Da Morrona, Pisa illustrata, III, 1812, p 63; l’opera potrebbe essere un utile post-quem per Toledo. Pressoché alla stessa iconografia il Gerini ricorre anche nell’analoga scena della chiesa di Santa Brigida al Bandino (Paradiso degli Alberti), considerata un poco più tarda (F. Antal, La pittura fiorentina...) ed. it. 1960, fig. 96).

30) M. Boskovits, La  pittura…, op. cit., 1975, figg. 302-303.

31) Per una ulteriore documentazione fotografica della predella e degli affreschi: D. Angulo Iñiguez, La pintura trecentista en Toledo, in ‘Archivo español de arte.’ 1931. A De Bosque. op. cit., pp. 91-91; M. Boskovits, La pittura…. op. cit., 1975, figg. 299-300.

32) D. Angulo Iñiguez, op. cit.,1931. p. 23.

33) F. Almarche Vázquez, op. cit., 1920. pp 5-8; l’atto del notaio riporta per esteso oltre all’ingiunzione del 1388 il contratto del 1387 che gli era stato presentato dall’emissario Dia Gonzalves de Medina ‘dispenser mayor de la alta Reina de Castella’.

34) J. Gudiol Ricart, Pintura gotica, ‘Ars Hispaniae’, IX, 1955, pp. 211-212, fig. 180-183, ricordato sia da F. Bologna, op. cit., p. 48 e n. 27 che da Boskovits, La pittura… op. cit , 1975, p. 254 n. 291.

35) J. Domínguez Bordona-J. Ainaud, op. cit., figg 203-204; per i rapporti con Juan de Sevilla: F. Bologna, op. cit., p. 48, e M. Boskovits, op. cit., pp. 156, 254 n 291, figg. 562-563.

36) Per una breve informazione di carattere generale sulla florida situazione di Valenza si veda l’introduzione al citato catalogo El siglo XV valenciano. a cura di V Sanchís Guarner, Sulla corte di Giovanni I e di Violante de Bar S. Sanpere y Miguel, Los cuatrocentistas catalanes. Barcellona 1906, I, cap I pag. 23 e seg. Particolarmente interessanti le notizie sul numero degli arazzi di soggetto profano nelle case barcellonesi.

37) Una ricchissima testimonianza archivistica (ma almeno in parte già nota) è stata raccolta da L. Cervero y Gomís, Pintores Valentinos, Su cronologia y documentación in ‘Anales del Centro de cultura valenciana’, 1963, p. 65 e seg.

38) J. Sanchís y Sivera, Pintores medioevales en Valencia, 1930, pp. 48-52.

39) Si veda anche la documentazione fotografica offerta da M. H. Dubreuil, Découvertes: le gothique à Valence. I in ‘L’Oeil’ 1975. n 234-235. Pp. 12 e seg.; II in ‘L’Oeil’ 1975, n 236, p. 10 e seg.

40) I due ‘Evangelisti’ provengono dalla coll. Lanz dove erano attribuiti a Giovanni del Ponte (uno di essi pubblicato dal Van Marle, The Italian School of Painting, IX, 1927, p. 73. fig 42); ma già il Berenson li riteneva del Maestro del Bambino Vispo (1963 p 138); ancora come di Giovanni del Ponte, con l’indicazione però del diverso parere anche della Van Waadenoijen, compaiono in H.W Van Os-Marian Prakken, The Florentine Paintings in Holland 1300-1500, 1974 p. 55 e figg. 25-26; il frammento con il profeta Osea, citato pur esso dal Berenson, doveva far parte delle cuspidi di un polittico, forse quello cui appartengono i pezzi di Boston (A. Santangelo Museo di Palazzo Venezia catalogo l948. p. 36).

41) Per notizie particolari sulla persona di Bonifacio Ferrer: L. De Saralegui, El Museo de Bellas Artes de San Carlos… Valencia 1954. pp 48. 184 e seg. n 32, che deriva da P. Tarin, La Cartuja de Porta-Coeli, Valencia 1897. Il retablo porta ormai da decenni l’attribuzione ad ‘anonimo italiano’ e come tale è stato esposto alla Mostra valenzana del 1973 (n. 6).

42) L. De Saralegui. op. cit., 1954, p 50.

43) Per il Cristiani R. Fremantle. op cit., fig. 520; per Spinello L. Bellosi. Da Spinello a Lorenzo Monaco in ‘Paragone’, 187. fig 22; per Lorenzo Monaco F. Zeri, Investigation into the Early Period of Lorenzo Monaco in ‘The Burlington Magazine’, dic. 1964. pp 554-558, II, gennaio 1965, pp. 3-11.

44) L. Bellosi, op. cit., ‘Paragone’. 1965. figg. 15-15. 26-29. 42-44; M Boskovits. La pittura… op. cit., figg.  119-124. 374-383.

45) M. Meiss, French Painting in the time of Jean de Berry. The late Fourteenth century and the patronage of the Duke, 1967, figg. 279-280.

46) Rubió y LLuch, Documents per l’historia de la cultura catalana mig-eval. I, Barcellona 1908, ricordato anche da J. Porcher, op. cit, introduzione.

47) F. Zeri, op. cit., 1964-65; Si noti il particolare, comune al ‘Battesimo’ della National Gallery di Londra e al pannello Valenzano ma non frequente, del Battista inginocchiato davanti a Cristo. Per questi pannelli di Valenza si vedano le citate illustrazioni del libro di A. de Bosque (nota II) e Santiago Alcolea, Il Gotico Internazionale in Spagna, Maestri del colore n. 226, tav. VIII.

48) F. R. Shapley. Painting from the Samuel H. Kress collection. 13th to I5th Century, 1966, p. 45. fig. 108.

49) Barón De San Petrillo, Filación histórica de los primitivos valencianos, in ‘Archivo de arte y arqueologia’ 1911, p. 6 e seg.

50) Vedila riprodotta in A. De Bosque, op. cit., a p. 40; J. Gudiol Ricart, Borrassà, 1953, p. 61, figg. 64-67.

51) Cerveto y Gomis op. cit., 1963, p 137. Trascrivo dal testo citato: ‘1408 (2. IV) En Gabriel Sanç mercede, ciutadà de Val. e en Ferrando Pereç pintor, costituinse principali pagadors e deutors en la quantitat dejus scrita ab duis ensemps e cascu por lo tot, voluntariament se obligaren en donar e pagar an Pere Nicolau, pintor, ciutadà de la dìta ciutat, present, quinze fiorins dor comuns d’aragò los qual Miguel d’Alcañiz deuia e deu per prestech de soldeda, lo qual lo dit en Pere Nicolau, havia fet al dit en Pere, qui ab ell sera afermat a pagar a la festa de Sent Johan de Juny prop venient sots pena del quart’.

53) La predella del retablo di Alpuente che il Post (VI. 1935 p. 572) vide nella chiesa di Colado e di cui ha pubblicato qualche pannello il Dubrueil (op. cit., 1975, I, figg. 13-14) sembra in effetti la più vicina nel tempo al contatto con il maestro italiano, al punto che il Dubreuil, riunendo al rimanente il pannello della ‘Resurrezione’, che già portava una indicazione per il Maestro del Bambino Vispo, e acquisendo i dati della ricerca della Waadenoijen, pensava ad un intervento diretto dello Starnina. Il Boskovits, op. cit., ‘Paragone’, 1975, p. 12 n 21, ha respinto l’ipotesi affermando l’unità stilistica di tutti i pezzi della predella, e attribuendola al rientro dell’Alcañiz dall’Italia. Che 1’opera sia tutta della stessa mano mi pare evidente, tenendo conto del diverso stato di conservazione dei pezzi resi noti per fotografia, ma proprio il fatto che faceva parte di un retablo i cui altri pannelli a Collado (Gudiol Ricart, op. cit., 1955. p 149. fig. 113, erroneamente riferito ad Alcañiz) e nel Museo di Zaragoza appartengono ad una cultura più antica, che non ha ancora a che fare con quella, tanto più svolta in senso tardogotico, di Lorenzo Zaragoza quale la conosciamo attraverso il retablo di Jerica, rende assai probabile che l’Alcañiz sia stato associato all’impresa proprio agli inizi della sua attività. Va però notato che la successione cronologica delle opere di Alcañiz, del resto mai fatta oggetto di analisi particolare, va riveduta tenendo conto della più forte caratterizzazione espressionistica di gran parte del retablo Pujades rispetto a quello già nella cappella dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme ed oggi diviso fra la Hispanic Society of America e il Metropolitan Museum di New York. Per quest’ultimo si vedano oltre alle riproduzioni nel testo di A. De Bosque, op. cit., C B. Andrews, The Valencia Altarpiece from the Priory of the Knights of St. John of Jerusalem in ‘The Connoisseur’ marzo 1921.

53) M. H. Dubreuil, op. cit., I. p. 12-17.

54) C. De Fabriczy. Il libro di Antonio Billi e le sue copie… Firenze. 1891. pp. 30, 64.

55) P. Tarin, op cit., p. 263 e seg.

56) Vedi n. 17.

57) R. Longhi. op. cit., ‘Paragone’ 1965. fig. 45 e tav. II a colori.

58) Post. op. cit. VII. 2, fig. 305.

59) Si veda per esempio la ‘Madonna con il Bambino’ del Museo di Barcellona, proveniente dalla coll. Plandiura (A. L. Mayer, El estilo gotico en España, III ed. 1960, fig. 39) o il timpano dell’ingresso principale della chiesa di Santa Maria de Ampurias (A. Duran Sanpere y Ainaud De Lasarte, Escultura gotica, ‘Ars Hispaniae’, VIII, 1956, figg. 230-231.

60)J. R. Seroux D’Agincourt, Histoire de l’art par les Monumens depuis sa décadence au 4me siècle, jusque à son renouvellement au I6me, Paris 1811-1820, ed. it. Milano 1824-1835. vol. VI. p. 202, tav. CXX1. Le due incisioni e il cosiddetto ‘autoritratto’ sono stati pubblicati già da U. Procacci, op. cit., 1955.

61) Di recente completata da C Volpe, L’altare di San Lorenzo del ‘Maestro del Bambino Vispo’, in ‘Mitt. des Kunsth. Inst. in Florenz’, 1973. pp. 347-360.

62) B. Berenson, op. cit., 1963, II, figg 714-717.

63) L. Bellosi, La mostra di Arezzo, op. cit., 1975, p. 54; vedi anche A. Maetzke. op. cit., scheda 27.

64) E. Callmann. Thebaid Studies in ‘Antichità viva’, 1975, 3, pp. 1-22.

65) R. Longhi, op. cit., 1939-1940.

66) E. Callmann. op. cit., 7. n. 27 e 28, fig. 14-15. Il pannello di Esztergom è stato attribuito a Mariotto di Nardo dall’Offner e da M. Boskovits (Sull’attività giovanile di Mariotto di Nardo in ‘Antichità viva’ 1968, 5, p. 7) ma l’attribuzione non compare più nel catalogo di Mariotto incluso nell’opera del ‘75 (op. cit., pag. 388 e seg.).

67) R. Longhi. op. cit , 1939-1940 nota 20. p. 184; B Degenhart-A Schmitt. Corpus der italienischen Zeichnungen 1300-1450, 2, 1968, p. 296, n 195; 4, tav. 216a e b.

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