I RESTAURI DELL’OPIFICIO NELLA ‘CRITICA’ DI JAMES BECK
di Giorgio Bonsanti
da OPD Restauro n. 6 (1994)
Ho esitato prima di sottrarre spazio ai contributi scientifici di questa rivista: dal momento che il fenomeno Beck interessa il costume, non la problematica del restauro (come illustro nella recensione al suo Restauri-Capolavori & affari, apparsa ne ‘La Rivista dei Libri’ di Settembre 1994). Ho concluso però che è ammissibile occuparsi brevemente dell’argomento anche in questa sede, appunto per l’indubbia rilevanza societaria ch’esso riveste.
Tralascerò di illustrare la mia versione laddove Beck mi sottopone a velenosi giudizi personali: ognuno ha il suo stile, ed io ci tengo al mio. Quanto al merito di ciò che dice (sottolineo che in questa sede terrò conto esclusivamente di ciò che concerne l’Opificio e che mi riferisco unicamente al suo libro già citato e non agli interventi apparsi in altre sedi), le sue affermazioni vanno dal genericamente disinformato (Gianni Caponi definito «consulente» dell’Opificio, p. 9: il restauro dell’Ilaria del Carretto eseguito sotto l’«alto patrocinio» dell’Opificio, p. 21; «gli staff di queste industrie [leggi Montefluos e Syremont] hanno collaborato con l’Opificio delle Pietre Dure», p. 51) all’inconcepibile, come quella secondo cui avremmo applicato un trattamento di Fomblin al San Marco di Donatello da Orsanmichele.
In effetti, chiunque può aver certezza che ciò non è stato in base a due considerazioni: la prima, che le nostre abbondanti pubblicazioni in materia non ne fanno cenno, e non è detto che, se altri per abitudine dice le bugie, lo facciamo anche noi; la seconda, che basta guardare la statua, anche da lontano e con pochissime diottrie, per vedere che non le è stato applicato alcun trattamento protettivo. Da dove avrà preso il Beck questo sproposito? Boh.
Per il resto, Beck definisce «come oggetti da fiera antiquaria» (p. 159) le sculture della Fonte Gaia, «seriamente maltrattata» (p. 140). Abbiamo ripetutamente presentato i primi studi e i risultati del restauro attualmente in corso in un articolo apparso sul n. 2 di questa rivista (1990), nella mostra ‘Raffaello e altri’ del 1990, oltre che in un’apposita giornata di studio promossa dal Comune di Siena nel novembre del 1992, recentemente (29 aprile 1994) in una lezione all’Università di Pisa, ecc., il che non impedisce al Beck di affermare che il lavoro si svolge senza controllo (p. 172): un’affermazione cui lo inducono la sua ignoranza e il suo delirio di onnipresenza. Mi sembra di capire che Beck non si è reso conto che il restauro dei singoli pezzi prelude alla ricomposizione in interno dei residui della Fonte, secondo le proporzioni originarie, un proposito ampiamente dichiarato e del tutto ovvio nelle premesse dell’intervento.
Fra le citazioni en passant che Beck si concede dall’alto della sua autorità, sta quella che gli stucchi donatelliani nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo (un lavoro a mio parere esemplare, condotto, specifico, prima che divenissi Soprintendente dell’Opificio) siano da annoverarsi fra gli esempi di interventi che abbiano prodotto più danni, materiali ed estetici, che benefici (p. 151). Si tratta di un restauro che è stato ampiamente apprezzato da John Pope-Hennessy, ad esempio, e molti altri; ciò che è caratteristico, non è tanto che Beck lo giudichi come si è detto, ma che non si senta in dovere di dare un minimo di spiegazione. Forse perché, in assenza di ‘soffiate’ da parte di un restauratore, non avrebbe saputo trovarne. Altri giudizi negativi sono riserbati alla pulitura della Primavera di Botticelli (p. 142), mentre il restauro della Cappella di Palazzo Medici del Gozzoli viene definito «non urgente» (p. 149).
Certamente non lo era, a termini di stretta conservazione: ma Beck non accetta, nel suo furore purista proprio dei neofiti, che si possa intervenire anche su un’opera d’arte che non sta materialmente cadendo a pezzi, ma di cui pur sempre è utile ristabilire una situazione di dignità storica (v. le sue considerazioni di p. 158). Quanto al Cristo e San Tommaso del Verrocchio, Beck cita spiritosamente la definizione di «Toblerone» di cui qualcuno lo ha gratificato dopo il restauro per il suo color cioccolata; e qui abbiamo un problema reale. Non tanto dal punto di vista del restauro: come è abbondantissimamente dimostrato, Beck non è interlocutore attendibile, e l’unica è lasciarlo perdere.
Ma da quello dello storico d’arte: Beck certamente ambisce ad esser considerato uno storico d’arte importante. Tralasciando di mettere in risalto uno sfondone come l’attribuzione a Masaccio dell’Incoronazione della Vergine di Santa Maria Nuova, o tutto quel che manca su Jacopo della Quercia nella recentissima monografia (1992), il problema è che qui abbiamo uno studioso del Rinascimento italiano che si dimostra del tutto incapace di rendersi conto dell’eccezionalità delle condizioni conservative del Cristo verrocchiesco, tanto che c’è da domandarsi che cosa veda in realtà, quando guarda una scultura, e com’è che si immagina fosse l’aspetto di una scultura rinascimentale. Mah.
Questa scarsa propensione alla problematicità emerge dalle lodi incondizionate che Beck tributa alla restauratrice Agnese Parronchi. La signora Parronchi è un eccellente frutto della scuola dell’Opificio: sostenere che lo sia nonostante abbia studiato lì, sembra un po’ esagerato: Beck non si domanda com’è possibile che un Istituto che ha insegnato così bene alla signora Parronchi, compia poi delle nefandezze come quelle di cui ci gratifica? Ma il fatto è che Beck mostra di aver problemi con il normale esercizio della logica più elementare.
Vediamo un po’. Qui siamo nel tormentone del famigerato processo per l’Ilaria del Carretto. Beck scrive: «Il direttore dell’Opificio delle Pietre Dure… fece notare che i giudici avevano riconosciuto il mio diritto alla libertà di parola, ma non avevano dato alcun giudizio sulla correttezza delle mie critiche: ne deduceva che le mie critiche erano sbagliate» (p. 156). In effetti, avevo scritto su un articolo di giornale che normalmente viene nominato un perito d’ufficio per assistere i giudici nel merito dí una problematica che sia loro ignota, il che non era avvenuto nell’occasione. Ovviamente, da queste premesse, se la logica ha un senso, non «deducevo» assolutamente niente in merito alla giustezza o meno delle critiche stesse. Ancora: vengo definito «fiero difensore» dei restauri della volta Sistina (p. 156). Beck concepisce la problematica del restauro, e la vita in senso lato, soltanto in termini di antagonismo e di rissa. Contento lui.
È caratteristico che per lui parlare di un restauro in maniera problematica, come ho sempre fatto, affermando (siamo sempre sulla volta della Sistina) che le tecniche di pulitura non mi entusiasmano, ma che il risultato mi sembra irreprensibile, equivalga ad essere un «fiero difensore» del medesimo. Queste due citazioni personali le ho fatte solo perché riguardavano questioni di carattere generale; su tutte le altre, come dicevo, mi astengo.
C’è soltanto un punto sul quale, ripensandoci, mi sembra che Beck possa avere una parte di ragione, ed è quando scrive (p. 163) che ho dato l’impressione che «tutti i restauratori e i gabinetti di restauro procedano usando le stesse tecniche e gli stessi criteri». Se davvero ho dato quest’impressione, me ne scuso: certamente, le cose non stanno così. Posso aver generalizzato.
Il libro termina con un’appendice della restauratrice Mirella Simonetti, simpaticamente ingenua com’è nel carattere della nostra amica. Meno apprezzabile risulta la conclusione, laddove ella scrive (p. 195) che «alcune delle critiche qui esposte… si propongono di provocare un controllo attivo su importanti restauri in programma, come quelli… del Miracolo della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo e di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova». Continuo a pensare che la Simonetti non si sia resa ben conto di cosa stesse realmente scrivendo: dovessimo darle ascolto, la salvezza delle opere di Giotto e di Piero, minacciate da quegli inetti dell’Istituto Centrale per il Restauro di Roma e dell’Opificio, sarebbe nelle sue capaci mani, e con tutto il rispetto, mi sembra un’affermazione leggermente ambiziosetta.
Concludo. Questa non era una recensione al libro del Beck, che come dicevo ho fatto altrove (e si veda almeno anche quella di Helen Glanville nel ‘Giornale dell’Arte’ di aprile, eccellente). Volevo soltanto, attraverso la velocissima menzione delle citazioni che Beck opera dell’attività dell’Opificio, relative a quei casi dei quali abbiamo conoscenza personale e diretta, mettere in rilievo alcune delle contraddizioni che in conclusione rendono il suo libro del tutto inservibile.