Il Gruppo BMPT
(Daniel Buren – Olivier Mosset – Michel Parmentier – Niele Toroni)
da: Dix Ans, nouvelle accrochage del la collection Albers-Honegger, 2014.
(traduzione di Paolo Pianigiani)
In occasione della prima mostra in Italia di Michel Parmentier alla Galleria il Ponte di Firenze
Nei primi anni sessanta, Michel Parmentier e Daniel Buren frequentavano lo studio di Simon Hantaï. Il ruolo e l’influenza di questi incontri sono decisivi per questi due artisti. Nel 1966, Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier e Niele Toroni creano BMPT e presentano il loro lavoro in occasione di quattro “Manifestazioni”. Per un anno, questi quattro artisti hanno soffiato un vento riformatore e di disapprovazione sulla Scuola di Parigi, che era considerata obsoleta. Pertanto, questi eventi mettono in discussione la rappresentazione, il modo di dipingere, la nozione di autore, l’ispirazione, nonché il ruolo istituzionale dei Saloni. Più in generale, propongono una riflessione sulla nozione di gruppo e lo sviluppo di una dimensione spettacolare nella creazione d’avanguardia. Michel Parmentier, in disaccordo con gli artisti, lasciò questa associazione nel dicembre 1967. Attori di una profonda messa in discussione dei mezzi tradizionali e dell’istituzione, sostengono un ritorno al grado zero della pittura, ridotto alla ripetizione dello stesso motivo secondo un meccanismo manuale la cui cadenza svuota gradualmente la composizione di qualsiasi sostanza significativa. Tutto ciò che rimane è la tela, il pennello, il colore. Insomma, gli “strumenti” della pittura, espropriati del loro potere illusorio. Daniel Buren ridipinge in bianco le due strisce bianche situate ad ogni estremità del tessuto a righe bianche e colorate verticali larghe 8,7 cm, Olivier Mosset inscrive un cerchio nero al centro della tela, Michel Parmentier realizza strisce orizzontali colorate ottenute alternando pieghe larghe 38 cm e Niele Toroni ha distribuito ogni trenta centimetri un numero di cinquanta pennellate. Insieme, creano una grammatica formale ascetica. Proclamando con orgoglio sui volantini “non siamo pittori” durante la “Manifestazione 1” al Salon de la Jeune Peinture, la loro arte è costruita contro di essa, vuole rompere. Gli atti artistici che propongono, come l’agitazione mediatica che mantengono, permettono di uscire dalla pittura. Si concentrano sul contesto artistico e si rivolgono all’istituzione e al territorio. Frutti della protesta, un anno prima del maggio 68, le loro opere sono accuse contro questa tradizione che si addormenta sul suo passato, che riposa sugli allori e che dimentica di essere un laboratorio di progresso e novità.
Daniel Buren
1938, Boulogne-Billancourt (Francia)Vive e lavora a Parigi (Francia)
Daniel Buren dirige il suo lavoro dal 1960 verso un’economia di mezzi artistici. Nel 1965 sviluppa il suo “strumento visivo”: strisce verticali di 8,7 cm di larghezza alternate a bianco e colorato, ripetendo queste strisce all’infinito e su tutti i supporti. Queste strisce rappresentano la distanza media della spaziatura tra due occhi. Originariamente, Buren non dipingeva i nastri che usava, erano direttamente stampati su tele acquistate al mercato di Saint-Pierre a Parigi nel 1965. Nel 1966, il lavoro congiunto svolto da BMPT fu un’opportunità per Daniel Buren di esaminare non solo i limiti fisici della pittura ma anche i confini politici e sociali del mondo dell’arte. La scelta di un modello fabbricato industrialmente risponde al desiderio di oggettività dell’artista: realizzare un’opera che si riferisce solo a sé stessa. Buren sfrutta il potenziale di queste bande alternate come segno; hanno significato solo nel rapporto che hanno con il sito in cui sono installate. Rivelando un posto alla vista, i nastri diventano uno “strumento per vedere”. Questo è il concetto di lavoro in situ che Buren sviluppa: l’intervento artistico è intrinsecamente legato al luogo in cui l’opera viene programmata e realizzata. Sempre in posa come teorico del proprio lavoro, Daniel Buren accompagna tutte le sue installazioni con una descrizione, note esplicative. La scelta di diversi supporti (tessuto pre-rigato, carta appositamente stampata, vetro verniciato, specchio, legno, pietra, plastica transparente, metallo…) e il passaggio dalla superficie piana alla terza dimensione, liberano l’artista dalla cornice imposta al dipinto e alle cimaises. A poco a poco, Daniel Buren si interessò ai legami tra architettura e arte; l’opera non è più un oggetto ma una modulazione dello spazio. Complicando il suo approccio, usa il colore installandolo nello spazio sotto forma di filtri, lastre di vetro o plexiglass colorato, accentuando così la manifestazione dell’opera.
Olivier Mosset
1944, Berna (Svizzera)Vive e lavora a Tucson (Usa)
Dopo aver studiato arte a Losanna, diventa assistente di Jean Tinguely e Daniel Spoerri. Ha vissuto e lavorato a Parigi dal 1965 al 1977, poi si è trasferito a New York, dove ha fatto da intermediario tra l’America e l’Europa. Il lavoro di Olivier Mosset è stato radicale fin dall’inizio. Nel 1965, ha iniziato a dipingere piccoli dipinti verticali che rappresentano la lettera A in nero su bianco, zero grado di composizione e messaggio, quindi un cerchio nero perfettamente disegnato. È quindi la forma scelta che diventa firma: per Mosset un cerchio nero di 15,5 cm di diametro e 3,25 cm di spessore, dipinto al centro di un quadrato di 1 m x 1 m. In occasione degli eventi organizzati in collaborazione con Daniel Buren, Niele Toroni, Michel Parmentier, questa figura target si aggiunge alle strisce, ai pennelli, alle strisce ugualmente neutre, scelte dagli altri membri del gruppo. La realizzazione dei circoli continuò fino al 1975. Al di là del radicalismo degli anni del BMPT, Mosset rivendica, dal 1977 attraverso la pratica del monocromo, una verità nata dalla pittura considerata come un oggetto. Secondo Paul Elie Ivey, l’artista “si presenta come un non-pittore, nel senso tradizionale dell’espressione, in quanto rivendica il fatto di rendere visibile il meccanismo da cui procede la pittura e critica il quadro istituzionale dell’arte”. Olivier Mosset ha realizzato anche sculture, tra cui i “Toblerones”, che prendono la forma dei famosi cioccolatini svizzeri, giocando con il riferimento all’arte minimale.
Michel Parmentier
1938, Parigi (Francia) – 2000, Parigi (Francia)
Rinunciando al facile, Michel Parmentier è legato a una forma fatta di pieni e vuoti. Dal 1965 al 1968 dipinse strisce orizzontali, di colore unico, alternate alle strisce bianche della tela. Ogni striscia è larga 38 cm. La superficie di ogni striscia si distingue dagli oli su tela per la loro regolarità e l’aspetto liscio. Per il primo, l’artista delimita le strisce con un adesivo che lascia tracce e le dipinge verticalmente, causando poi flussi di vernice. Per i successivi, decide di ottenere un risultato identico ripetendo, da tela a tela, gli stessi gesti. Inizia passando uno strato preparatorio, poi piega e pinza la tela permettendogli di ottenere strisce che bombarda uniformemente di colore. Il passo finale è lo svolgimento della tela. Questo processo afferma l’idea che l’opera implica una certa discrezione dell’artista nei suoi confronti, nessuna traccia del suo gesto deve essere visibile. Michel Parmentier, tuttavia, si permette di apporre un segno discreto dell’iscrizione in tempo della realizzazione della tela. Timbra il retro con la data di produzione che mostra il giorno, il mese e l’anno. Michel Parmentier vuole trovare colori che corrispondano a questo sistema. Opta per colori tipici, ad esempio un blu che può essere simbolico solo del blu.
Volendo evitare “che un possibile significato possa essere dato ad un singolo colore preferenziale” Michel Parmentier cambia colore ogni anno. Così nel 1966 realizza strisce blu; nel 1967 strisce grigie; nel 1968 strisce rosse e dal 1983 strisce nere. Il centro del suo lavoro è la rinuncia, l’assenza, quel qualcosa che non è da vedere ma da scoprire, meglio andare. Lasciare lo studio, il museo, la galleria, interessarsi solo al ritmo, vedere solo un ritmo, una successione, sembra essere il modo giusto da usare.
Niele Toroni
1937, Locarno (Svizzera)Vive e lavora a Parigi (Francia)
Nella capitale francese dal 1959, sviluppa nel 1967 una concezione artistica radicale dalla quale da allora non si è più allontanato: dipinge “Stampe a pennello n°50 ripetute a intervalli regolari di 30 cm”. Le impronte di solito prendono come tele di supporto tese su cornici, le pareti degli spazi espositivi, a volte superfici variate in base ai vincoli dei luoghi investiti. Il colore varia, il supporto anche ma rimane sempre piatto. Con questo obbligo di lavorare nel piano, di coprire con un gesto e gli strumenti del pittore una superficie, e soprattutto quando si confronta con le pareti stesse di uno spazio, l’opera di Toroni si presenta bene come un’opera di pittore, ridotta in un certo senso alla sua economia più stretta. Non c’è nulla da vedere se non ciò che deve essere visto, le impronte e la loro indole si riferiscono a nient’altro che a sé stessi. L’opera non ha altro significato nel suo rifiuto e rigore che quello di essere pittura. Il pittore mantiene quindi costantemente un atteggiamento volutamente distaccato, apparentemente tornato da tutto e descrivendo il suo lavoro come quello di un pittore che va a lavorare ogni mattina alla maniera di qualsiasi altro lavoratore. Toroni rivendica così “il grado zero della pittura”; determina la pittura come gesto di non copertura di una superficie. Pur demistificando l’arte, Toroni offre ad ogni mostra nuove apprensioni dello spazio, il legame del lavoro con il contesto diventa quindi essenziale. Il radicalismo di questa teoria ma anche la sua rilevanza e l’eleganza dei reperti all’interno di questo quadro vincolante fanno di Toroni uno degli artisti più importanti della sua generazione.