Claudio Paolini: La Madonna del Latte in Sant’Ambrogio a Firenze

LA MADONNA DEL LATTE IN SANT’AMBROGIO A FIRENZE

Claudio Paolini

 

Membro del Council of Academic Advisors dei Friends of Florence

e membro della giuria del premio

 

In occasione della presentazione del restauro realizzato da Cristina Napolitano, vincitrice della VII edizione del Premio Friends of Florence | Salone dell’Arte e del Restauro 2024.

L’affresco di Sant’Ambrogio, discialbato e riportato alla luce nel 1839, è stato originariamente ricondotto alla scuola di Giotto e quindi, nel tempo, attribuito all’Orcagna, a Spinello Aretino, ad Agnolo Gaddi e infine al Maestro della Cappella Rinuccini, che Luciano Bellosi ha identificato nel 1973 con Matteo di Pacino, pittore di formazione orcagnesca documentato come attivo a Firenze tra il 1359 e il 1374.

I vari nomi ricordati, se da una parte dicono delle difficoltà relative alla questione attributiva, dall’altra sottolineano l’alta qualità dell’opera, che si è ipotizzato datare tra il 1365 e 1370, cioè agli anni che vedrebbero Matteo di Pacino attivo proprio nel cantiere della cappella Rinuccini in Santa Croce.

Se per l’affresco di Sant’Ambrogio si è mantenuto il riferimento al nome convenzionale di “Maestro della Cappella Rinuccini” (in ragione della titolazione del progetto vincitore del premio), l’attuale restauro, portando a una maggiore leggibilità le figure ed evidenziando alcune particolarità di tecnica esecutiva, ha consentito un più puntuale confronto con altre opere ricondotte a Matteo di Pacino.

Matteo di Pacino, San Michele Arcangelo tra due santi e una donatrice, Galleria dell’Accademia, Firenze

 

Illuminante, ad esempio, è il confronto con la tavola raffigurante San Michele Arcangelo tra due santi e una donatrice, oggi conservata presso la Galleria dell’Accademia di Firenze, che offre una evidente vicinanza stilistica con la nostra opera, nonostante il ben diverso stato di conservazione e il diverso mezzo espressivo (affresco in Sant’Ambrogio, tempera su tavola alla Galleria dell’Accademia).

 

 

Si veda, in particolare, il modo di delineare le mani e, più in generale, la possibilità di sovrapporre il volto della Madonna a quello dell’Arcangelo e il volto e buona parte della figura delle due raffigurazioni di San Bartolomeo, tanto da non lasciare dubbi sulla comune paternità delle opere.

A creare un ulteriore legame tra i due dipinti è poi il fatto che la tavola di San Michele, per quanto migrata in più luoghi fino ad approdare alle gallerie fiorentine, si trovava in origine proprio nel monastero femminile benedettino di Sant’Ambrogio, e questo fino alla sua soppressione nel periodo dell’occupazione francese (1808-1810).

La presenza nella tavola delle figure di San Michele e di San Giuliano Ospitaliere hanno fatto ipotizzare che l’opera fosse stata realizzata per la Compagnia di San Michele della Pace, che tuttavia non sembrerebbe essere stata attiva prima del 1444, data della fondazione dell’oratorio ancora presente nella piazza di Sant’Ambrogio, sede della Compagnia stessa. La si potrebbe invece più correttamente riferire a un altare dedicato a San Michele che, per quanto non individuabile, gli antichi documenti ricordano di pertinenza del nostro complesso.

San Bartolomeo, particolare della Madonna del Latte di S. Ambrogio
San Bartolomeo, particolare del San Michele Arcangelo tra due santi e una donatrice alla Galleria dell’Accademia

La presenza nella tavola della figura di San Bartolomeo ci riporta invece nuovamente all’affresco della chiesa, dove il santo compare, assieme a San Giovanni Battista, ai lati della Madonna che, in trono, è in atto di allattare il Bambino. Mentre San Giovanni appare posto in riferimento alla città di Firenze, la presenza di San Bartolomeo apre ad ipotesi legate alla possibile committenza dell’opera, vista la limitata e circoscritta diffusione del suo culto in ambito fiorentino.

A questo proposito si tenga presente come non sia certo il patronato originario dell’altare da parte dei Bonsi Succhielli, la cui arme parlante segna oggi i capitelli della più tarda edicola che incornicia l’affresco.

Accettato questo, le suggestioni (che di suggestioni e di ipotesi di studio si tratta) appaiono diverse.

Tenendo presente come il tabernacolo robbiano con il Sant’Ambrogio che guarda alla piazza (anch’esso restaurato grazie all’intervento dei Friends of Florence e segnalazione dello scrivente) riferisca della “Città Rossa” e quindi ricordi la presenza delle fornaci di laterizio che caratterizzavano la zona del quartiere alle spalle della chiesa verso l’attuale piazza Beccaria (si pensi al toponimo che ancora identifica via della Mattonaia), San Bartolomeo potrebbe essere letto come riferibile a quelle attività legate alle varie lavorazioni della pelle che segnavano il quartiere verso la chiesa e il convento di Santa Croce, e oltre, lungo l’Arno.

Come è noto l’apostolo Bartolomeo era infatti stato martirizzato tramite il supplizio dello scorticamento, e di conseguenza era stato identificato come protettore dei conciatori e dei lavoratori delle pelli le cui botteghe, al tempo, si estendevano nel quartiere fino a lambire la piazza di Sant’Ambrogio, come attesterebbe l’antico nome di via de’ Macci, ricordata come via dei Bucciai, cioè dei lavoratori di pelli fini, ben distinti dai “pelacani” che invece si erano stabiliti lungo un tratto di via Ghibellina e poi in quelle zone che ancora conservano i toponimi di via delle Conce e dei Conciatori.

In quest’ottica anche la presenza di San Giovanni Battista assumerebbe diverso significato, visto il suo ruolo anche di protettore dei conciatori, a causa del suo coprirsi con pelli di cammello legate da una cintura di cuoio, sempre ben evidenziata nelle sue raffigurazioni.

Avanziamo comunque anche una ulteriore ipotesi di studio.

Oltre alla chiesa di San Bartolomeo a Monte Oliveto esisteva in antico solo una chiesa in città dedicata al santo, in via dei Calzaiuoli, dove oggi c’è una targa (civico 56 rosso) che ne ricorda la fondazione nell’XI secolo e la sua trasformazione in edificio civile nel 1768.

La chiesa, che poi fu del tutto distrutta tra il 1842 e il 1844 in occasione dell’allargamento della strada e della costruzione del Bazar Buonaiuti (poi Duilio 48 e poi Coin), è ricordata nelle carte d’archivio come San Bartolo dei Macci, dalla famiglia che ne aveva il patronato e che in questa zona aveva le sue principali proprietà, compresa almeno una torre.

Come è noto i Macci avevano case e orti anche nella nostra zona, nella strada che si diparte proprio dalla piazza di Sant’Ambrogio e che ancora oggi ricorda nel nome la famiglia.

Lungo questa strada, nel 1335, Caio Macci, in memoria del padre Francesco, aveva fondato un ospedale incorporando un più antico fabbricato ugualmente destinato all’assistenza dei malati.

Pochi anni dopo, nel 1344, il complesso era stato poi ampliato con la costruzione di un attiguo monastero affidato alle clarisse che fu intitolato a San Francesco al Tempio de’ Macci.

Le monache provvidero a fornire la struttura di una chiesa e il monastero di un vasto orto, del quale restano ancora tracce nel giardino aperto su borgo Allegri e corrispondente al complesso ospitaliero.

In questa stessa struttura le monache accolsero anche le ‘malmaritate’, cioè donne separate dal marito, madri nubili, vedove povere o donne sposate a uomini impossibilitati a mantenerle (invalidi, carcerati e simili).

Non ci sembra peregrina l’ipotesi che in questa loro importante impresa i Macci abbiano portato nella zona l’attenzione a quel San Bartolomeo che in un qualche modo li ricordava.

Certo è che con il restauro dell’affresco, i Friends of Florence, non solo hanno contribuito alla conservazione di una insigne opera d’arte, ma hanno una volta di più consentito di ricomporre un tassello della storia della città di Firenze, anche se ancora da approfondire e precisare.

S. Ambrogio, frammento di affresco staccato, foto di Alena Fialová prima del restauro

A latere di queste riflessioni si tenga presente il frammento di affresco staccato ora presentato subito sotto l’immagine della Madonna del Latte, con la raffigurazione di Sant’Ambrogio in vesti arcivescovili con mitra e pastorale, di un ignoto pittore fiorentino attivo entro la prima metà del XIV secolo: una delle testimonianze ambrosiane tra le più antiche che si conservano nella chiesa, fortunosamente ritrovata negli anni dello stacco dell’affresco, al di sotto della mensa dell’altare.

 


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