Charles su Josef

Josef Sudek

In copertina: Charlie con la sua Widelux, foto di Bistra Lankova. Siamo nel 1980

di Charles Sawyer

[Originariamente pubblicato in “Creative Camera”, Aprile 1980, numero 190]

traduzione di Andreina Mancini

Charles Sawyer

Prologo:

Josef Sudek nacque nel 1896 a Kolin sull’Elba in Boemia. Da ragazzo imparò il mestiere di rilegatore di libri. Arruolato nell’esercito ungherese nel 1915, prestò servizio sul fronte italiano finché non fu ferito al braccio destro. La ferita si infettò e alla fine i chirurghi dovettero amputargli il braccio fino alla spalla. Durante la convalescenza in un ospedale militare cominciò a fotografare i suoi compagni di camera. Dimesso dall’ospedale, Sudek studiò fotografia per due anni in una scuola di arti grafiche di Praga. Tra una pensione di invalidità e un lavoro saltuario come fotografo commerciale, Sudek si guadagnava da vivere. Nel 1933 tenne la sua prima mostra personale nel salone di Krasnaya Izba. Dal 1947 ha pubblicato otto libri. All’inizio degli anni ’50, Sudek acquistò una fotocamera Kodak Panorama del 1894 il cui obiettivo con azionamento a molla produce un negativo di 10 cm x 30 cm.

Kodak Panorama del 1894

Si servì di questo formato insolito per realizzare una serie straordinaria di vedute di Praga, pubblicate nel 1959. L’opera di Sudek apparve per la prima volta in America nel 1974, quando la George Eastman House di Rochester, New York, gli dedicò una mostra retrospettiva. Lo stesso anno la Light Gallery di New York City presentò una mostra delle sue fotografie. Nell’aprile 1976, in occasione del suo 80° compleanno, il Museo di Arti Decorative di Praga inaugurò una mostra retrospettiva completa dell’attività di Sudek, che apparve in seguito alla Photographer’s Gallery di Londra.

Malgrado la sua disabilità, Sudek usò sempre fotocamere di grande formato e dagli anni ’40 in poi realizzò solo stampe a contatto. Lavorò senza assistenti all’aria aperta in città e in campagna. A Praga la sua figura curva che reggeva un enorme cavalletto di legno era uno spettacolo familiare. Sebbene non si fosse mai sposato e fosse piuttosto timido, non era un solitario ed era famoso per le sue serate settimanali per ascoltare musica classica della sua ricca collezione di dischi. Sudek morì serenamente e senza sofferenze o malattie a metà settembre 1976 a Praga.

Sudek, l’uomo e l’opera:

Josef Sudek nacque nel 1896 nella città industriale di Kolin sul fiume Elba in Boemia.La Cecoslovacchia allora esisteva solo nell’immaginazione di pochi artisti visionari, soprattutto scrittori, e di alcuni attivisti politici. L’imperatore Francesco Giuseppe regnava sul trono asburgico e la Boemia era un regno dell’impero austro-ungarico. Il padre di Josef era imbianchino e mandò il figlio presso un rilegatore a imparare il mestiere; un collega introdusse il giovane alla fotografia. Nel 1915 fu arruolato e assegnato a un reparto sul fronte italiano. Dopo poco meno di un anno al fronte, fu ferito al braccio destro. La ferita non era grave, ma sopravvenne la cancrena; ne seguì una lunga lotta e alla fine il braccio di Sudek fu amputato fino alla spalla. Per tre anni rimase ricoverato in un ospedale per veterani; fu lì, durante la convalescenza, che iniziò seriamente a fare fotografie.

Gli anni trascorsi dopo le dimissioni dall’ospedale per veterani intorno al 1920 fino al 1926 furono anni irrequieti per Sudek. Non era in grado di lavorare come rilegatore. Gli fu offerto un impiego in ufficio ma rifiutò. Dopo essersi stabilito a Praga si mise in cerca di qualche altra occasione. Prese in considerazione l’idea di intraprendere un’attività di piccolo mercante, ma l’idea non lo attirava. Per sbarcare il lunario faceva fotografie dietro incarichi di poco conto. Entrò nell’Amateur Photography Club e fece amicizia con Jaromir Funke, un giovane fotografo ben educato, diretto, con teorie estetiche innovative sulla fotografia. Nel 1922, Sudek si iscrisse alla Scuola di Arti Grafiche di Praga e ricevette una formazione in fotografia di tipo tradizionale.

Due soggetti soprattutto attiravano la sua attenzione con la sua fotocamera: i suoi ex compagni feriti, gli invalidi dell’ospedale per veterani e la ricostruzione della Cattedrale di San Vito a Praga, allora in corso. Ogni tanto tornava nella nativa Kolin per fotografare il tempo libero della gente nei parchi della città. Tuttavia era turbato, apparentemente non ancora riconciliato con la sua perdita. Ed era polemico. Insieme al suo amico Funke, fu espulso dal Club di fotografia per la sua impaziente opposizione verso coloro che sostenevano fermamente le tecniche allora consolidate di ricercatezze pittoriche. I due nuovi arrivati ​misero insieme altri fotografi che la pensavano come loro e nel 1924  formarono la Czech Photographic Society, gruppo d’avanguardia fautore dell’integrità del negativo e dell’autonomia dalla tradizione pittorica. Sebbene Funke avesse la stessa età di Sudek, aveva già studiato legge, medicina e filosofia. Sudek ammirava la sua educazione superiore e le sue capacità intellettuali e le loro discussioni spesso conducevano a progetti ambiziosi.

Nel 1926 Sudek subì una crisi esistenziale quando accettò un invito dei suoi amici della Filarmonica Ceca a unirsi a loro in una tournée in Italia. La sua descrizione dell’odissea è raccontata da Bullaty (pagina 27). Ecco come andò:

“Quando i musicisti della Filarmonica Ceca mi dissero: “Josef vieni con noi, andiamo in Italia a suonare”, mi sono detto “Sciocco che sei, eri lì e non ti sei goduto quel bel paese quando hai servito come soldato per l’esercito dell’imperatore”. E così sono andato con loro in questa insolita gita. A Milano abbiamo ricevuto molti applausi e consensi e abbiamo viaggiato lungo lo stivale italiano finché siamo arrivati in quel posto – io ho dovuto sparire nel bel mezzo del concerto; nel buio mi sono perso, ma dovevo cercare. Lontano fuori città verso l’alba, nei campi bagnati dalla rugiada mattutina, finalmente trovai il luogo. Ma il mio braccio non c’era – solo la povera casa di contadini era ancora al suo posto. Mi avevano convinto quel giorno in cui mi hanno sparato al braccio destro. Non avrebbero mai più potuto rimetterlo insieme, e per anni sono andato di ospedale in ospedale e ho dovuto rinunciare al mio mestiere di rilegatore. Sembra che quelli della Filarmonica mi abbiano persino fatto cercare  dalla polizia, ma in qualche modo non riuscivo ad andare via da questo paese. Mi sono ripresentato a Praga un paio di mesi dopo. Non mi hanno rimproverato, ma da quel momento in poi non sono più andato da nessuna parte, mai più e non andrò mai. Cosa cercherei quando non ho  trovato quello che volevo trovare?”

Dal resoconto sommario di Sudek della sua crisi del 1926, ricaviamo l’immagine di un uomo irrequieto e turbato che accetta un invito casuale che lo porta proprio vicino al punto in cui anni prima la sua speranza di una vita normale era andata in frantumi. Lasciando i suoi amici a metà concerto, vaga insonnolito fino a quando verso l’alba arriva nel luogo esatto in cui, quasi dieci anni prima, la sua vita era cambiata per sempre. Incapace di abbandonare la speranza di recuperare il braccio perduto, rimane due mesi in quel luogo, tagliato fuori dai suoi amici e dal suo mondo a Praga. Finalmente, il suo lutto completato, riconciliato, ma per sempre estraniato, ritorna a Praga, dove si immerge nella sua arte.

L’interpretazione della vita di Sudek offerta nel paragrafo precedente mi sembra riflessa nella sua fotografia e confermata nel suo stile di vita. Le sue foto dal 1920 fino all’anno della sua crisi sono nettamente diverse, sia nello stile che nel contenuto, da quelle successive. Nella serie di foto scattate all’inizio degli anni ’20 nell’ospedale per veterani, i suoi ex compagni  invalidi sono visti come sagome spettrali avvolte in nuvole di luce – anime perse sospese nel Limbo. Nelle foto dello stesso periodo, di gente che la domenica cercava svago nella nativa Kolin, le persone sono viste da distanza, attraverso il soft focus, in gruppi sociali, di solito con le spalle alla fotocamera, suggerendo la chiusura agli estranei del comune mondo sociale. Il suo ampio studio sulla ricostruzione di San Vito iniziato nel 1924, due anni prima della crisi, e completato nel 1928, con la pubblicazione del suo primo libro, può essere fin troppo facilmente interpretato come una metafora della sua lotta personale per ricostruire la propria vita.

Dopo il 1926, Sudek cominciò a trovare il proprio stile personale e ad entrare nella sua piena potenzialità di artista. Scomparsa la foschia del soft focus, sparite anche le persone – anche la maggior parte dei suoi paesaggi urbani mostra strade deserte. Rivolse la sua attenzione alla città di Praga con devozione e dedizione che sono rare anche tra gli artisti più impegnati. Riuscì a catturare sia la grandezza che la semplicità di quella bella città. Eppure, per quanto bella possa ancora sembrare, attraverso il suo obiettivo essa è vuota. Come se per compensare l’assenza del fattore umano al suo posto abituale, Sudek personificasse l’inanimato. I boschi della Boemia e della Moravia proiettati sul suo schermo erano abitati da “giganti dormienti”, come li chiamava lui, enormi alberi morti che vegliavano sul paesaggio come statue fuori dall’Isola di Pasqua. Nei suoi stati d’animo giocosi, Sudek giocava con maschere e teste di statue, mostrandole come amanti, come grottesche o anche come divinità. Trovò l’intimità difficile da raggiungere – forse perché era doloroso – non solo nella sua vita interpersonale, ma anche sotto il suo telo nero.

Una facile sostituzione arrivò con oggetti inanimati. “Amo la vita degli oggetti” disse a un intervistatore.”Quando i bambini vanno a letto, gli oggetti prendono vita. Mi piace raccontare storie sulla vita di oggetti inanimati.” Dedicò un’infinità di ore a fotografare oggetti speciali in varie ambientazioni, in particolare oggetti regalati da amici. Spesso chiamava queste foto “rimembranze” di questa o di quella persona. Sembra che il suo rapporto personale con le cose inanimate che fotografava con tanto amore iniziasse come alternativa alla reale intimità con altre persone ed evolvesse in un mezzo per riempire il vuoto che c’era tra lui e gli altri.

Quando raggiunse la maturità artistica, l’immersione nel lavoro e la devozione a un alto livello di artigianato divennero i motivi dominanti della vita di Sudek. Nel 1940 vide una fotografia di 30 x 40 cm di una statua di Chartres, che, riconobbe, non era un ingrandimento ma era ottenuta da un processo di contatto. La stampa lo colpì così tanto per la resa del materiale lapideo che giurò di realizzare in seguito sempre stampe a contatto. Disse che non era tanto la finezza dei dettagli che desiderava nelle stampe a contatto, quanto la loro variazione tonale. Da allora trascinò apparecchi fotografici grandi quanto il formato 30 x 40 cm (circa 12 x 16 pollici) per le ripide strade dei quartieri di Hradcany e Mala Strana di Praga, lavorando con una mano, tenendo in grembo la fotocamera per fare aggiustamenti, usando i denti quando la mano non bastava.

Nessun fotografo, tranne forse Atget, si era così tanto dedicato al compito di ritrarre una città, e con risultati così straordinari, come Sudek. Non avrebbe potuto avere un soggetto migliore di Praga; nemmeno Atget fu così fortunato con Parigi. Praga è, per molti, il gioiello d’Europa. Nei giorni in cui l’Europa da Parigi a San Pietroburgo era ancora un continuum culturale, Praga era considerata il cuore del continente. La città era la seconda casa di Mozart dopo Vienna (gli sembrava che i Cechi lo apprezzassero di più rispetto ai suoi concittadini viennesi), ed era anche la città natale di Kafka. In qualche modo i due si fondono, come i massicci edifici della città di architettura gotica, rinascimentale e barocca. (Gli edifici moderni, soprattutto i complessi residenziali, sono misericordiosamente collocati in periferia). Due elementi dominano la città: il Ponte Carlo, il ponte pedonale che attraversa la Moldava, fiancheggiato da statue che rappresentano la storia della cristianità e dei Cechi, e il castello di Hradcany, una fortezza tentacolare che racchiude diverse corti, residenza tradizionale dei re cechi, così come la cattedrale di San Vito. Il Ponte Carlo risale al XIV secolo e la prima costruzione di Hradcany risale al XII secolo. Il castello, che sorge sulla cresta di un ripido crinale che sale dalla riva occidentale della Moldava, domina il profilo della città vista dalla riva orientale del fiume. In tutto, Sudek ha riempito sette libri di fotografie di Praga. Lasciò le strade solo verso la fine, quando la vecchiaia accresceva il suo handicap e gli spostamenti per la città con la sua fotocamera erano diventati una lotta titanica. Nel Prologo del suo libro (pag. 14), Sonja Bullaty racconta un aneddoto su come aiutava Sudek a fotografare Praga. Descrive il rapporto speciale tra lui e la città:

“Ricordo una volta, in una delle sale romaniche, nel profondo sotto le guglie della cattedrale (S. Vito) – era buio come nelle catacombe – con una sola piccola finestrina sotto il livello della strada dentro massicce mura medievali. Abbiamo sistemato il cavalletto e la fotocamera e poi ci siamo seduti sul pavimento a parlare. All’improvviso Sudek si alzò come un fulmine. Un raggio di sole era penetrato nell’oscurità e tutti e due agitammo dei teli per sollevare montagne di polvere “per vedere la luce” come disse Sudek. Naturalmente sapeva che il sole sarebbe arrivato qui forse due o tre volte l’anno e lui stava aspettando.”

Il suo atteggiamento da operaio si applicava non solo al lato puramente tecnico delle cose, ma anche all’estetica del suo lavoro con la fotocamera. Da nessuna parte questo è così evidente come nelle sue foto panoramiche. Il formato insolito con le proporzioni estreme di 1 x 3 e le particolari distorsioni causate dall’obiettivo ampio sono estremamente impegnative, come i vincoli di un sonetto. Tuttavia, come tutti i vincoli artistici, i requisiti particolari della foto panoramica offrono opportunità che non si trovano altrove. Sudek non si stancava mai di esplorare le possibilità dei sonetti fotografici che poteva realizzare con il suo antico meccanismo i cui tempi di posa erano contrassegnati semplicemente con “veloce” e “lento”. Con questo ci ha dato una sensazione geodetica della campagna che supera di gran lunga qualunque cosa otteniamo da vedute isolate, e nella stessa Praga ha mostrato come il fiume Moldava sia parte integrante della città e come la qualità labirintica della città sia compensata dai suoi grandi spazi aperti. Non gli sono mai mancati dei modi ingegnosi di utilizzare il formato panoramico. Prima che il panorama orizzontale avesse svelato tutti i suoi segreti, Sudek ha girato la macchina fotografica su un lato e ci ha offerto dei panorami verticali!

L’approccio sistematico e l’ostinata sperimentazione estetica di Sudek sono simili al modo di lavorare di Cézanne. Ma questi da soli non sono sufficienti per fare grande arte o anche  buona arte. Al contrario, se questi sono tutto ciò che si vede in un’opera, il peso complessivo di tanto semplice lavoro sarebbe insopportabile. La dedizione di Sudek al lavoro potrebbe aver riempito la sua vita distrutta ma non avrebbe potuto offrirgli la redenzione spirituale che stava cercando; solo la sua ricerca estetica poteva trasmettergliela. È la lotta per la redenzione spirituale attraverso la sua ricerca estetica che conferisce alle migliori fotografie di Sudek la loro reale forza. Due qualità caratterizzano il suo lavoro migliore: una ricca diversità di valori di luce all’estremità bassa della scala tonale e la rappresentazione della luce come una sostanza che occupa uno spazio suo proprio. La prima, la diversità dei valori di luce, richiede un trattamento molto delicato dei materiali, specialmente del negativo, ma anche della carta (Sudek utilizzava soprattutto carte all’alogenuro d’argento). L’altra, la rappresentazione della luce come sostanza, è un tratto più originale rispetto alla sua tavolozza tonale, che si vede in stampe occasionali di altri fotografi.

Una volta Flaubert espresse l’ambizione di scrivere un libro che non avesse argomento, “un libro che non dipendesse da nulla di esterno…tenuto insieme dalla forza del suo stile”; Talvolta i fotografi hanno espresso l’aspirazione parallela di fare della luce stessa il soggetto delle loro fotografie, lasciando indietro il mondo banale e materiale. Entrambi gli ideali sono, naturalmente, irraggiungibili, ma potrebbe comunque valere la pena di perseguirli. (Gli artisti, nella loro ricerca dell’irraggiungibile, non sono così facilmente chiamati patologici come altri, fra noi, sebbene i recenti sviluppi nella filosofia della scienza tendano a considerare la ricerca della verità da parte dello scienziato come ugualmente donchisciottesca). Sudek si è avvicinato più di qualsiasi altro fotografo a questo obiettivo illusorio. I suoi strumenti per ottenere questo effetto sono semplici e altamente poetici: la polvere che ha sollevato freneticamente quando la luce era giusta, una tenda leggera drappeggiata sullo schienale di una sedia, la nebbia di un irrigatore da giardino, persino l’umidità dell’atmosfera quando l’aria è vicina al punto di rugiada.

L’occhio di solito è abituato a vedere non la luce ma le superfici che essa definisce; quando la luce è riflessa da materiali amorfi, invece, la percezione della materialità si sposta sulla luce stessa. Sudek ha cercato questi materiali ovunque. E poi di solito riequilibrava la luminescenza eterea con il contrabbasso delle sue profonde tonalità d’ombra. L’effetto è magico, e trasmette con forza l’elemento umano che è il vero contenuto delle sue fotografie. Perché, in tutta la sua fotografia, c’è uno stato d’animo predominante, un punto di vista coerente e una filosofia prevalente. Lo stato d’animo è la malinconia e il punto di vista è il romanticismo. E prevalente su tutto questo è un distacco filosofico, un atteggiamento che condivide con Spinoza. L’atteggiamento di distacco che caratterizza l’arte di Sudek spiega sia la sua forza che la sua debolezza: la forza che sta nell’ideale di assoluta tranquillità e la debolezza che si trova nella scarsità di intimità umana. Alcuni commentatori trovano misteriose le foto di Sudek, ma penso che sia sbagliato: l’aria di mistero svanisce una volta che vediamo nella fotografia di Sudek la salvezza privata di una persona dalla disperazione.


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