Il Ciborio di San Miniato al Monte, la storia

 

La storia del Ciborio e il suo significato

di Daniele Rapino

 

L’Arte di Calimala, la potente corporazione fiorentina che riuniva i mercanti fiorentini, ebbe un ruolo fondamentale nell’amministrazione e cura del complesso monastico di San Miniato, a iniziare dal 1180 e fino alla sua soppressione nel 1770. Lo stemma dell’Arte, raffigurante un’aquila dorata che tiene con gli artigli un torsello – più panni tenuti assieme da un laccio –  in campo rosso, domina la cuspide della facciata della chiesa di S. Miniato così come quella della Cappella del Crocifisso all’interno della Basilica. Risale al 1447 la prima notizia relativa alla proposta di una consona dimora al veneratissimo e miracoloso Crocifisso dipinto di San Giovanni Gualberto. Piero de’ Medici si rese disponibile a finanziare la realizzazione di una cappella decorata con le insegne medicee. L’incarico fu affidato a Michelozzo di Bartolomeo, l’architetto prediletto dalla famiglia Medici già al tempo di Cosimo il Vecchio, il quale collaborò, per la prima volta, con Luca della Robbia. Il risultato fu questo straordinario ed elegante tempietto dalle forme classiche che orna il cuore della navata centrale della basilica già dal 1448. All’Arte di Calimala non restava che incaricare lo scultore Maso di Bartolomeo per la realizzazione di due aquile bronzee, di magnifica fattura, da collocare alla sommità della copertura del tempietto: una, rivolta verso i fedeli e l’altra, verso il presbiterio. Da subito il crocifisso fu collocato all’interno della Cappella, che occupa, verosimilmente, il medesimo luogo in cui era stato innalzato l’altare nella ristrutturazione della basilica romanica. Dalle verifiche eseguite durante gli attuali restauri, infatti, abbiamo constatato che una mensa in marmo bianco è conservata al di sotto di quella attuale in marmo rosso e, il rivestimento in tarsie marmoree dei fronti laterali e posteriore dell’altare è di una fattura  e di una materia ancora più raffinata, se confrontata con l’opera di Michelozzo. Questo ci fa ipotizzare che un altare romanico era preesistente in quel luogo, come già congetturato dal Lucchesi nel 1937 e riutilizzato da Michelozzo, ruotandolo di novanta gradi. La tarsia che riveste il fronte rivolto verso i fedeli, invece, è di fattura novecentesca, e sostituisce una lapide, oggi conservata nel chiostro, fatta apporre da Cosimo III per celebrare il trasferimento, nel 1671, del Crocifisso miracoloso di San Gualberto  presso la chiesa vallombrosana di Santa Trinita.

Oggi, grazie alla generosità dei Friends of Florence e in coincidenza con le celebrazioni del millenario della fondazione del complesso monastico dei monaci benedettini olivetani di San Miniato, inauguriamo il restauro completo della cappella-tempietto del Crocifisso. Un intervento che si è mostrato da subito complesso sia per l’eterogeneità dei materiali costitutivi e sia per lo stato di conservazione non ottimale dovuto anche alle manomissioni succedutesi nell’arco dei secoli che ne hanno, in parte, modificato l’assetto originario. L’architettura classica del tempietto si compone di un’elegante volta a botta modanata con due archi marmorei finemente scolpiti a motivi vegetali. Questa poggia su una trabeazione intarsiata, scolpita e lumeggiata d’oro con marmi bianchi e verdi a formare un motivo ricorrente con gli emblemi di Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico composto da tre piume infilate in un anello d’oro con rubino e un festone continuo con la scritta SEMPER.  La faccia posteriore della parete fondale della cappella è corredata di un bellissimo tondo scolpito con la figura di un falcone con i sonagli allacciati alle zampe mentre artiglia un anello con rubino, emblema di Piero de’ Medici.  Due colonne con capitelli compositi sostengono anteriormente la volta, mentre posteriormente è retta da due pilastri scanalati. Luca della Robbia nel rivestire internamente la volta a botte si serve di formelle maiolicate ottagonali con cornici bianche variamente modanate  e fondi azzurri al cui centro spicca a rilievo una corolla di un fiore con lunghi petali; il rivestimento esterno è realizzato a scandole maiolicate di tre colori, bianco, verde e rosso, e violaceo a significare il rosso che le conoscenze tecniche del tempo non permettevano di realizzare. La parete di fondo accoglieva il Crocifisso dipinto su tavola, che miracolosamente si chinò davanti a San Giovanni Gualberto. Tutta la struttura marmorea ha subito numerosi interventi di restauro durante i secoli, ma l’evento più traumatico subito è stato il suo completo smontaggio per metterlo in sicurezza da eventuali danni causati dall’ultimo evento bellico, e la successiva ricomposizione alla fine della guerra, intorno al 1950. Questa manomissione ha creato non pochi problemi, dovuti principalmente alla fretta dello smontaggio e alla successiva sua ricomposizione. Con l’attuale intervento di restauro, sono stati eliminati consistenti strati di sporco e polvere depositati su tutte le superfici e all’interno degli interstizi; sono state, inoltre, integrate  le parti mancanti come le stelle in metallo che decorano l’interno della volta e sono stati consolidati i marmi dove presentavano dei cretti più profondi. Le aquile in bronzo dopo un’attenta e puntuale pulitura a laser hanno riacquistato la loro brillantezza naturale mettendo in mostra la magnifica doratura e gli smalti con cui erano state in parte decorate. Un discorso a parte meritano le formelle lignee  raffiguranti scene della Passione di Cristo, San Miniato e San Giovanni Gualberto, che costituiscono il dipinto posto sull’altare e che ha subito nell’arco dei secoli numerose manomissioni. Infatti Agnolo Gaddi tra il 1394 – 1396 realizzò un polittico cuspidato per la Basilica. Non sappiamo quando questo fu poi modificato e privato della sua cornice originaria cuspidata per adattarlo alla parete di fondo della cappella e neppure quando furono resi gli scomparti apribili separatamente per permettere una visione parziale del crocifisso miracoloso. Lo smontaggio delle tredici formelle che costituiscono oggi il dipinto si è mostrato alquanto complesso poichè ciascuna formella era stata fissata posteriormente a una struttura lignea a reticolo, incastrata nella parete di fondo, che impediva i naturali movimenti del legno. Sulla parete di fondo, dietro il dipinto, è riemersa alla vista un lacerto di decorazione di una finta architettura, realizzata presumibilmente tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, dopo che il Crocifisso miracoloso fu trasferito, nel 1671, a Santa Trinita. Questa riscoperta ci fa supporre che per un certo periodo il dipinto del Gaddi non occupava la parete di fondo della cappella, oppure forse non vi era ancora mai stata. Nel 1836, comunque il dipinto del Gaddi era collocato sulla parete di fondo della cappella, come è attestato da un disegno acquerellato del Taccuino di viaggio in Italia di Eugéne Viollet Le Duc. In questa immagine salta subito in evidenza l’assenza del recinto in metallo che perimetra la Cappella, modellato con elementi circolari a richiamare, probabilmente, l’emblema mediceo degli anelli. In un’incisione dell’Atlante illustrativo da Attilio Zuccagni Orlandini datata 1841, appare per la prima volta il suddetto recinto; i recenti restauri hanno confermato la sua fattura ottocentesca.

Nel 1906-1910 e poi nel 1917 diversi lavori di restauro della Basilica interessarono anche la Cappella del Crocifisso con tassellature di marmi del gradino dell’altare e, molto probabilmente, con la realizzazione in questi anni della tarsia sul fronte dell’altare a imitazione di quelli preesistenti, da come si intuisce da una foto Alinari databile al 1938. In questa stessa foto si evidenzia anche l’inversione delle formelle raffiguranti i  due santi patrono della Basilica con quelle raffiguranti  alcune scene della Passione di Cristo dai margini esterni,  al centro del polittico. Non conosciamo le ragioni di questa manomissione, ma abbiamo ritenuto opportuno, in questa circostanza, di riposizionare nell’assetto precedente il 1938 tutte le formelle, così da restituire al ciclo pittorico un più idoneo assetto iconografico.

Daniele Rapino

Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio

Per la Città Metropolitana di Firenze e le Province di Prato e Pistoia

 


 

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