L’educazione di Masaccio

 

L’EDUCAZIONE DI MASACCIO. DOCUMENTI, PROBLEMI, PROPOSTE

 

di Anna Padoa Rizzo

 

da: Mitteilungen Des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, vol. 46, no. 2/3, 2002, pp. 247–261.

 

 

Masaccio, La Vergine col Bambino, due Angeli e quattro Santi. Cascia (Reggello). Pieve di San Pietro. Foto di Sailko

 

Per cercare di fare chiarezza su un problema tanto importante quanto ancora pieno di incertezze quale è quello della formazione di Masaccio, mi è sembrato opportuno ripartire ab ovo, concentrando l’attenzione intorno ai primi anni degli studi e al tirocinio artistico di Tommaso di ser Giovanni, tentando di rimettere insieme, dopo una nuova verifica e secondo logica consequenzialità, le notizie che possediamo, per darne poi una lettura interpretativa, che risulterà in larga parte nuova, anche grazie a qualche ulteriore riscontro documentario nel frattempo intervenuto.

Sono ben note, ma sempre affascinanti e fondamentali, le parole con cui Antonio Manetti, biografo e collaboratore di Filippo Brunelleschi, testimonia su Masaccio: “Masaccio pittore, uomo maraviglioso […] A dì 15 di settembre 1472 mi disse lo Scheggia suo fratello che nacque nel 1401 el dì di Santo Tomaso apostolo, ch’è a dì 21 di dicembre.”1 Giorgio Vasari, poi, nella prima e nella seconda edizione delle sue “Vite,” aggiunge qualche notizia sui primi anni di vita di Masaccio, con parole importanti per noi, essendo un artista egli stesso e quindi curioso di ciò che riguarda l’attività professionale di ognuno: “La origine di costui fu da Castello San Giovanni di Valdarno, e dicono che quivi si veggono ancora alcune figure fatte da lui nella sua prima fanciullezza.”2 Come si vede, Vasari non si sente di dare un suo giudizio informato sull’attività artistica di Masaccio in patria, e tuttavia le sue parole, certo non casuali e da lui soppesate prima di essere scritte a poco più di un secolo dalla morte di Masaccio stesso e assai meno da quella di suo fratello lo Scheggia, non ci possono lasciare indifferenti, raccogliendo una tradizione ad evidenza ancora viva. Torneremo su questo punto in chiusura del presente contributo.

Dunque, Masaccio visse i primi anni della sua esistenza a Castel San Giovanni col padre, notaio, ser Giovanni di Mone (Simone) di Andreuccio e con la madre, monna Jacopa, nella casa che ancora esiste nell’antica via Maestra, certo seguendo le regole delle famiglie agiate del tempo; qui lo colpì l’evento traumatico della precoce morte del padre nel 1406, quando monna Jacopa già aspettava un altro bambino, che nacque nello stesso anno, Giovanni detto Scheggia.

Vasari poi termina la “Vita di Masaccio” riportando un importante commento del Brunelleschi alla notizia della morte del pittore, commentandolo a sua volta in modo per noi indicativo per capire il ruolo che ebbe il grande architetto nell’ ‘educazione’ artistica di lui: “Dicesi che sentendo la morte sua, Filippo di ser Brunellsco disse: Noi abbiamo fatto in Masaccio una grandissima perdita […] e gli dolse infinitamente, essendosi affaticato gran pezzo in mostrargli molti termini di prospettiva e di architettura.”3 Vedremo in seguito che cosa si possa arguire, in concreto, da queste parole amare pronunciate da Filippo Brunelleschi e commentate dal Vasari.

I bambini4, nel Quattrocento come ora, cominciavano ad andare a scuola tra i cinque e i sei anni; dunque Masaccio avrà concluso il primo ciclo di istruzione, di cinque anni, probabilmente alla fine del 1412 circa: si arriva più o meno al tempo (peraltro non noto con certezza) in cui monna Jacopa si risposa con Tedesco di maestro Feo, un ricco anziano a sua volta vedovo (anzi più volte), trasferendosi in casa del nuovo marito, sembra almeno col figlio più piccolo Giovanni, secondo la stessa testimonianza di quest’ultimo rintracciabile nella sua ‘portata’ al Catasto fiorentino del 1469: “[..] rimaritossi mia madre ed ella m’allevò, tanto [cioè ‘fintanto, fino a quando’] ch’io andai al soldo d’età d’anni 14.”5

Forse anche Masaccio seguì la madre e il fratellino in casa del patrigno; tuttavia è ben possibile che sia rimasto con la famiglia paterna, secondo una prassi piuttosto diffusa al tempo e testimoniata in più occasioni nei documenti catastali (un esempio di epoca pertinente l’ho potuto verificare di recente a proposito della famiglia di Michele di Giovannino Marcovaldi, committente di Paolo Uccello nella cappella dell’Assunta nel duomo di Prato6): ma per Masaccio nessuna testimonianza sicura ci è giunta. D’altronde, anche suo fratello Giovanni continuò certo a intrattenere, attraverso la madre e personalmente, ottimi rapporti con la famiglia paterna, tanto che risulta iscritto, oltre che all’Arte dei Medici e Speziali, anche a quella dei Legnaioli, come il nonno e lo zio.7

Malgrado la mancanza, a tutt’oggi, di una documentazione diretta e chiara, credo tuttavia che qualcosa si possa dedurre dagli elementi che abbiamo a disposizione: intanto, come risulta dalle parole dello Scheggia sopra ricordate, e come apprendiamo da più altri casi analoghi che ci informano sulla prassi del tempo, a quattordici anni un giovane, completati, dopo la scuola elementare, gli studi intermedi della durata variabile da due a tre anni al massimo (la Scuola dell’Abbaco, che insegnava, oltre ad un affinamento nella scrittura, anche a far di conto e a sapersi districare nella contabilità in genere, dando gli strumenti per avviarsi a qualsiasi professione mercantesca o artigianale abbastanza elevata), il giovane, dicevo, doveva incamminarsi verso un lavoro professionale, a meno che non fosse destinato a continuare gli studi con la Scuola di Grammatica e Logica (che includeva l’apprendimento del Latino), di durata indeterminata, variabile a seconda dell’intelligenza e della applicazione del ragazzo. Dunque anche Masaccio sicuramente seguì gli studi fino a circa 14 anni con la Scuola dell’Abbaco, come dopo di lui il fratello minore e secondo la prassi del tempo per i ragazzi di famiglie benestanti e istruite come era il suo caso.

Ma non proseguì con la successiva Scuola di Grammatica e Logica: questo è testimoniato con certezza dallo studio attento della sua scrittura, documentata dalla ‘portata’ al Catasto del Contado del 29 luglio 1427 e, prima, dalla pagina del libro in mano a San Giovenale nel trittico di Cascia (1422) (fig. 1). Dovremo tenere conto della grafia, che appare fluida e sicura oltre che corretta, accertando un buon livello di scolarizzazione e anche di apprendimento: in realtà, anche confrontata ad esempio con la scrittura, che conosco assai bene dal suo “Libro di bottega,” del pittore Bernardo di Stefano Rosselli che andò ad imparare l’arte nella bottega di Neri di Bicci a 10 anni (quindi avendo frequentato solo la scuola elementare), la correttezza ortografica e logica della scrittura di Masaccio certifica una più lunga disciplina di studi, anche ammettendo una sua particolare precocità e capacità di apprendimento.8 Ma dovremo considerare anche il lessico e il fraseggiare: come ha dimostrato con competenza da specialista Lucilla Bardeschi Ciulich 9, Masaccio pur mostrando buona padronanza della lingua volgare e della scrittura ‘mercantesca,’ non mostra alcun riferimento a strutture sintattiche o a vocaboli o a grafie latineggianti, incancellabile in chi avesse frequentato anche la Scuola di Grammatica e Logica, dopo quella dell’Abbaco.

Di conseguenza, quantificando storicamente, possiamo ritenere certo che Masaccio abbia frequentato la scuola, a Castel San Giovanni, almeno fino allo scadere del 1414 o del 1415. Forse, se suo padre ser Giovanni, notaio ben avviato, fosse rimasto in vita, non è da escludere che anche il giovanetto (e certo brillante per intelligenza) Tommaso sarebbe stato avviato alla medesima professione, continuando quindi la sua formazione culturale umanistica: questa non è solo una congettura sulla base di quanto spesso si riscontra al nostro tempo, poiché ragiona in questi medesimi termini Antonio Manetti 10 nella sua biografia di Filippo Brunelleschi, dove dice: “Nella sua tenera età, Filippo apparò a leggere et a scrivere e l’abaco, come s’usa per gli uomini da bene, e per la maggiore parte, fare a Firenze; e così qualche lettera, perch’el padre era notaio, e forse fe’ pensiero di fargli fare quel medesimo; perché, a chi non s’aspettava d’essere o dottore o notaio o sacerdote, pochi erano quelli in quel tempo che si dessono o fussono dati alle lettere.”

Tuttavia Masaccio, ‘pupillo’ (cioè orfano) quale era (e la madre rimaritata e a sua volta madre di altri figli di seconde nozze), e anche già apertamente incline alle arti del disegno, a quel punto dovette entrare in una bottega di artigianato artistico come apprendista, ‘fattorino’ o ‘garzone’ come si diceva al tempo. Una bottega che non dubitiamo essere stata ancora nella stessa città natale, e proprio per questo piuttosto dedita alle arti applicate, in particolare legata alla produzione di mobili secondo la tradizione che era della famiglia paterna di Masaccio, i cui membri erano detti per questo ‘cassai’ cioè approntatori di cassoni o cofani, in legno lavorato e spesso dipinto.11 D’altronde nell’Estimo di Castel San Giovanni del 1426 Masaccio col fratello Giovanni di ser Giovanni sono detti, tutti e due, “cassai in Firenze,” parola che indica con certezza la professione e non un ancora inesistente cognome: da notare, in questa direzione, come lo stemma dell’Arte dei Legnaiuoli rechi proprio una ‘cassa’ da cui sorge un albero, simbolo ‘parlante’ dell’attività, e chiarificatore dell’uso della parola, gergale più che dialettale, ‘cassaio’ nel senso di ‘legnaiolo.’

È importante, semmai, sottolineare come tale professione venga riconosciuta per tutti e due i fratelli (mentre solo lo Scheggia fu iscritto, ma più tardi, all’Arte dei Legnaioli e largamente implicato in questo genere d’artigianato artistico): crediamo che questo sia determinato non solo da una semplificazione di dicitura, ma dalla conoscenza di una conclamata attività in tal settore dei due fratelli in patria, prima che se ne andassero a Firenze: infatti, nel volume 91 dell’Estimo del 1426, in cui si ritrova la dizione “Maso et Giovanni di ser Giovanni di Mone cassai in Firenze,” essa appartiene alla rubrica “Usciti di detto quartiere e iti.”12 È questo, come vedremo anche più avanti, un punto assai importante per il nostro discorso. Si trattava di un settore di artigianato in cui, comunque sempre, il disegno e la misura erano gli elementi fondanti.

Ritengo del tutto probabile che questa bottega artigiana dove il ragazzo Tommaso cominciò il tirocinio fosse proprio quella del nonno paterno, Mone di Andreuccio, per certo assai attiva a quel tempo e ben avviata, secondo che risulta ancora dai preziosi Libri dell’Estimo, proprio per il 1414-15.13 Questo primo apprendistato si sarà esteso all’incirca per i due o tre anni completi che ci mancano per giungere al finire del 1417, allorché, morto da pochi mesi (il 17 agosto) anche il patrigno, Masaccio, che ormai finiva i sedici anni e sicuramente si mostrava assai promettente e appassionato al suo lavoro, dovette lasciare Castel San Giovanni e trasferirsi a Firenze per completare il suo tirocinio professionale, con il periodo del ‘discepolato’ necessariamente triennale secondo i dettami dello Statuto dell’Arte dei Pittori.

Proprio dalla fine di tale anno 1417 o poco dopo sua madre prende in affitto una casa in città, posta oltrarno nel popolo di San Niccolò, nel Quartiere di Santo Spirito, Gonfalone Scala, dalla famiglia Bardi nella persona di monna Piera, appartenente allo stesso Quartiere e Gonfalone, come risulta da documenti del fondo dell’Archivio dei Pupilli, rintracciati da Ugo Procacci che ne dette notizia circa 20 anni fa.14 Una scelta che crediamo non casuale, essendo quella parte della città la più vicina per chi arriva dal Valdarno, ma anche densa di attività di artigianato artistico: dal Catasto del 1427 risultano significativamente abitare nel Gonfalone Scala del Quartiere di Santo Spirito 8 tra legnaioli e cofanai, 2 cartolai, 13 orafi; ma nessun ‘dipintore.’15

È considerata incerta (a mio avviso per un eccesso di prudenza) la notizia secondo cui già nell’ottobre del 1418 Masaccio, peraltro diciassettenne e quindi non ancora maggiorenne, ma indicato come “Maso di ser Giovanni dipintore da Castel San Giovanni,” fece da mallevadore (“sodò per lui”) ad un conterraneo, Neri di Cenni Colci, per l’iscrizione all’Arte dei Legnaioli”16; e tuttavia, in seguito al riscontro personale sul pezzo archivistico, questa mi è apparsa una notizia significativa e ben possibile, considerata la sequenza in cui si trova e la vicinanza del tempo della trascrizione rispetto all’originale perduto (la trascrizione è del 1421, come risulta dal frontespizio del volume). Di conseguenza, ritengo ben significativo il coinvolgimento amichevole di Masaccio con un conterraneo e per di più ‘legnaiolo,’ per comprenderne il legame continuativo con Castel San Giovanni (San Giovanni Valdarno), testimoniato dai documenti che lo riguardano nei quali sempre viene citato il luogo d’origine, nonché dal suo ‘accatastamento’ nel Contado; due elementi questi, il coinvolgimento in un giuramento all’Arte e il legame con il ‘legnaiolo’ Neri di Cenni, che si accordano perfettamente con quanto si può correttamente intendere dalla dizione che si legge nel citato Estimo del 1426, dove Masaccio e suo fratello Giovanni sono detti “cassai in Firenze.”

Il breve documento dell’Arte dei Legnaioli è interessante in misura non minore per la specificazione della qualifica di “dipintore” con la quale Masaccio è ricordato, indicandoci con certezza la direzione in cui egli si muoveva, il campo specifico cioè in cui perseguiva il proprio apprendistato, e nel quale era già riconosciuto esplicitamente attivo. Infatti, la qualifica di “dipintore” poteva benissimo riferirsi ad un giovane diciassettenne, ‘discepolo’ ormai avanzato presso una bottega pittorica, seppur non ancora iscritto all’Arte: ricordo il caso documentato di Benozzo Gozzoli, indicato come “dipintore” in un documento del 1439 (quando sfiorava i 18 anni), in cui risulta riscuotere compensi per un suo lavoro autonomo, prima della iscrizione all’Arte e del compimento dell’apprendistato completo.17

Niente tuttavia ci è noto con certezza, per ora, riguardo alla bottega presso la quale il nostro Tommaso prestava a Firenze la sua opera come ‘discepolo,’ e quindi riguardo al suo ‘maestro d’arte pittorica.’ A questo proposito sono state avanzate significative proposte, finora largamente accolte negli studi su Masaccio, da Luciano Berti, che tende a individuare il primo maestro di Masaccio, in pittura, in Bicci di Lorenzo, caposcuola di una affermata bottega fiorentina ubicata in via San Salvatore, popolo di San Frediano: e certamente si trova tra i ‘garzoni’ di Bicci, nel 1420-21, il più giovane fratello di Masaccio, lo Scheggia, allora quattordicenne, nonché Andrea di Giusto, che in seguito risulta documentato come ‘garzone’ di Masaccio stesso al tempo del polittico di Pisa (1426), ma che fu anche, a mio parere, collaboratore nell’impresa della cappella Brancacci già prima della partenza di Masolino per l’Ungheria (1° settembre 1425), e anche in altre occasioni: a lui infatti ritengo siano da riferire, per l’esecuzione, nella scena della Predica di San Pietro (di Masolino) il personaggio dai monotoni panneggi piatti e rigidi dietro il San Pietro, ed inoltre il Carmelitano in primo piano a destra, caratterizzati anche dalle atone espressioni, confrontabili con alcuni brani degli affreschi della cappella dell’Assunta nel Duomo di Prato, da Andrea di Giusto messi in opera dopo l’abbandono dell’impresa da parte di Paolo Uccello nel maggio 1436: mi conforta in questa individuazione di una diminuente collaborazione di Andrea di Giusto al lavoro di Masolino l’opinione espressa da Luciano Berti 18 circa la minore riuscita di questo affresco nel contesto di tutta l’opera di Masolino alla cappella Brancacci, ma anche l’osservazione di come Andrea di Giusto abbia cercato di trarre profitto dalla sua presenza sui ponti della cappella Brancacci riprendendo in più occasioni temi e schemi dagli affreschi di Masolino (ad esempio dalla perduta Vocazione dei Santi Pietro e Andrea del lunettone della cappella Brancacci, in uno scomparto della predella della sua pala di Ripalta del 1436), ma anche motivi tratti da Masaccio, sia dalla cappella Brancacci che da altre opere.19

Tuttavia, mi preme notare come per Andrea di Giusto il rapporto con Masaccio (e Masolino) si verifichi esclusivamente in un tempo seguente alla frequentazione da parte dello Scheggia della bottega pittorica di Bicci di Lorenzo a partire dal 1420: di conseguenza, ribaltando il rapporto, si può ritenere che sia stato proprio lo Scheggia a fare da tramite tra il suo maggiore fratello (e il di lui socio Masolino) e la bottega di Bicci di Lorenzo nella quale operava anche Andrea di Giusto, in seguito ingaggiato come ‘garzone’ da Masolino e Masaccio, forse quando anche lo Scheggia venne del tutto integrato nel team del fratello.

Malgrado le autorevoli (e ragionevolissime) proposte in proposito, niente di definitivo è fino ad oggi emerso circa il primo tirocinio pittorico di Masaccio: mi è sembrato dunque legittimo (anzi necessario, secondo una linea di approccio alla ricerca di tipo ‘scientifico’) riesaminare da capo il problema, in ogni suo passaggio, cosa che mi ha portato a considerare una diversa possibilità, a mia conoscenza fino ad oggi non prospettata né indagata. Tenendoci stretti ai pochi documenti noti e a tutti gli indizi di cui abbiamo conoscenza e concatenandoli tra loro senza forzature ma in modo penetrante, ritengo che qualcosa si possa ricavare: avventuriamoci dunque in questo ‘processo indiziario’ (ma non solo indiziario, come vedremo), per ricostruire gli esordi di Masaccio, ancora incerti.

Con la fine del 1421, Masaccio compie 20 anni e termina il periodo legale di apprendistato, sebbene non gli fosse impedito, abbiamo visto, di lavorare già, come pittore, nel tempo del ‘discepolato’, assumendo incarichi anche in prima persona, avendo ormai raggiunto una sua maturità artistica e tecnica, indipendente dagli adempimenti legali e burocratici, d’altronde necessari. Aveva infatti svolto apprendistato per 2-3 anni in patria, più 3-4 completi a Firenze, arrivando con precisione ai 6-7 richiesti dagli Statuti dell’Arte, dei quali 3 almeno come ‘discepolo’ (è da ricordare come, al tempo, era sufficiente intaccare l’anno perché questo fosse già conteggiato, in contratti di ogni tipo, di apprendistato, di ‘compagnia’ eccetera).

Infatti il 7 gennaio 1422 (secondo lo stile comune, ma 1421 nel documento ovviamente in stile fiorentino, ab Incarnatione) Masaccio si immatricola all’Arte dei Medici e Speziali in qualità di dipintore, dove è definito: “Masus ser Iohannis Simonis pictor populi Sancti Nicholai de Florentia.”20 Questo significa con sicurezza che egli, a questo momento, ritiene necessario a ragione di una attività personale non più occultabile, ma anche conveniente sul piano giuridico e amministrativo, ottenere la propria autonomia professionale, accollandosene contestualmente anche gli oneri. Dunque, un curriculum di preparazione professionale normalissimo, secondo le necessità del tempo in relazione alle possibilità a sua disposizione e alle capacità attitudinarie dimostrate: quelle sì variabili da persona a persona, e che quindi potevano comportare delle variazioni anche importanti riguardo al grado di autonomia professionale nella pratica, e riguardo ai tempi del suo raggiungimento.

Non si sa niente sul luogo dove Masaccio ebbe a svolgere la propria attività una volta divenuto maestro autonomo, ma la residenza indicata nell’iscrizione all’Arte, il popolo di San Niccolò, è relativa alla sua abitazione, in questo momento ancora quella, possiamo ritenere, presa in affitto anni prima da monna Piera de’ Bardi. Ciò apre, a mio avviso, due possibilità di interpretazione: l’una, che all’inizio il nostro Masaccio lavorasse in casa, come d’altronde accadeva non di rado anche per maestri di lui più anziani e affermati, per tutto il Quattrocento, sebbene l’Arte tendesse ad esigere una più controllabile separazione tra la bottega e l’abitazione: ricordo tra gli altri i casi di Cosimo Rosselli e del Botticelli ma si potrebbe citare anche Giusto di Andrea (il figlio di quell’Andrea di Giusto che fu collaboratore di Masaccio) che lo testimonia in prima persona nel suo ‘diario’21, ed altri ancora. Ma esiste anche un’altra possibilità, che mi sembra anche più reale a filo di logica e buon senso: è possibile cioè che il giovane pittore, forse non ancora fornito di una clientela personale così vasta da poter impiantare e sostenere una complessa bottega sua, ma sicuramente in grado di soddisfare personalmente incarichi di qualunque tipo, come sancito dalla iscrizione all’Arte, continuasse ad appoggiarsi, secondo un nuovo accordo bilaterale (magari anche semplicemente verbale) che poteva essere stipulato solo dopo il suo ‘giuramento’ all’Arte, alla bottega di quello che era stato il maestro dipintore presso il quale aveva svolto l’apprendistato nella fase finale del ‘discepolato’: ancora oggi molti giovani si avviano così sulla strada della libera professione, in vari campi. Vediamo di approfondire l’indagine in questa direzione.

Non risultando ancora nulla dalla iscrizione di Masaccio alla Compagnia di San Luca nel 1424, dove un solo arido rigo gli è dedicato accanto alla data (la dicitura è: “Maso di ser Giovanni da Chastello San Giovanni”22), troviamo finalmente notizia certa di una bottega di Masaccio, separata dall’abitazione23, il 5 giugno 1425, quando “a Maso dipintore e a Niccolò dipintore, istanno a San Pulinari,” è versato un compenso di venti lire per la doratura di candelabri (detti “viti”) eseguiti per i Canonici del Duomo di Fiesole. Questa bottega di “San Pulinari,” ricordata esplicitamente nella ‘portata’ al Catasto di Masaccio del 29 luglio 142724, sia nel testo che nella annotazione dello scrivano, era di proprietà dei monaci Benedettini della Badia Fiorentina.

Ritengo assai significativo lo stretto coinvolgimento professionale con “Niccolò dipintore,” documentato a questa data relativamente avanzata (1425), ma che doveva esistere anche in precedenza, sembrandomi impossibile che la loro collaborazione per la messa in opera dei candelabri per i Canonici del Duomo di Fiesole fosse solo un episodio casuale, visto che nell’unico Catasto che possediamo di Masaccio viene da lui dichiarato un importante debito (di 102 lire e 14 soldi, pari a oltre 25 fiorini) nei confronti del medesimo “Niccolò di ser Lapo dipintore,” debito confermato anche dai Catasti di quest’ultimo: non è mai specificato, però, per quale causa esistesse questo debito, sul quale torneremo tra poco.

Il rapporto, documentato, con questo maestro dipintore mi appare significativo per più ragioni. Prima di tutto, per la sicura condivisione della bottega: si trattava della sola bottega di dipintore tra le molte botteghe di ‘cartolai’ di proprietà della Badia poste intorno ad essa, elencate in un inventario del 1441 reso noto da Alessandro Guidotti nel 1982.25 Le nuove ricerche documentarie da parte di Annamaria Bernacchioni confermano questo dato, come vedremo più avanti. Ma si può arguire qualcosa di più, e a mio avviso di importante: infatti va tenuto ben presente che, secondo la testimonianza del tutto attendibile della ‘portata’ al Catasto del 1427, per la bottega Niccolò di ser Lapo paga ogni anno ben 7 fiorini “e una oca” (può sembrare strano, ma era invece frequente: anche Paolo Uccello, ad esempio, aggiunge “una oca” al fitto in denaro della sua bottega in piazza San Giovanni), mentre Masaccio paga solo 2 fiorini l’anno per “parte di una bottega della Badia tengho io Tommaso.” Inoltre, assai significativo mi pare il fatto che il compenso di venti lire relativo ai candelabri per i Canonici di Fiesole, che era “prò oro et manifattura”, sia versato ai due maestri in solido: ciò presuppone, mi pare con certezza, una loro comune contabilità amministrativa nei confronti di terzi. E’ questo un punto molto importante, a mio avviso.

Tutto questo mi fa pensare ad un sodalizio professionale perdurante da tempo, e che ben poteva essersi istituito in seguito ad un periodo di collaborazione subordinata, da maestro ad apprendista/discepolo, tra l’assai più anziano Niccolò di ser Lapo di Giovanni (immatricolato all’Arte nel 1401-226), e il giovane c promettente valdarnese: ciò spesso avveniva a quel tempo, ed è per esempio documentato con chiarezza, sotto la forma giuridica della ‘compagnia,’ per Bicci di Lorenzo, Stefano d’Antonio e Bonaiuto di Giovanni intorno al 1430.27 Non mi pare azzardato pensare che anche tra il giovane Masaccio e Niccolò di ser Lapo intercorresse un analogo rapporto di discepolato poi trasformatosi in ‘compagnia,’ questa perdurante ancora nel giugno del 1425: il debito vistoso di Masaccio verso Niccolò di ser Lapo emergente dai loro Catasti ben può, crediamo, riferirsi proprio ai conteggi relativi alla loro ‘compagnia.’ In base a quanto ciascuno di loro paga per il fitto della bottega, si può anche dedurre quale fosse, in tale ‘compagnia,’ il rapporto-percentuale tra i due, largamente sbilanciato in favore del più anziano Niccolò di ser Lapo. In più, Niccolò di ser Lapo rinnova il fitto della sua bottega, alle stesse condizioni, nel novembre (il 13 novembre) 1428 per tre anni:28 ritengo probabile che il partner in questa occasione fosse diventato lo Scheggia, già appoggiato, secondo l’intuizione di Peggy Haines29, al maggiore fratello negli ultimi suoi anni di attività e che nel 1429 è ricordato in un documento notarile come abitante in Firenze per l’appunto nel popolo di Sant’Apollinare.

Nel Catasto di Niccolò di ser Lapo del gennaio 1430/31 il debito di Masaccio, diminuito vistosamente a 78 lire, esiste ancora, ma lo crede perduto, perché “questo Tommaso morì a Roma non so se mai narò alcuna cosa però che dicie il fratello non nesser reda;”30 anche lo Scheggia, in questa stessa occasione, è ricordato come debitore di Niccolò di ser Lapo, per la cifra di 4 fiorini: non potrebbero essere i due anni di fitto della bottega dal novembre 1428 al novembre 1430?  Me lo domando con molta circospezione.

Nel Catasto del 1433 (31 maggio)31, Niccolò di ser Lapo lamenta ancora il debito di Masaccio (“Rede di Tommaso di ser Giovanni mi deno dare, e non si truova chi sia reda e chon chi io faccia conto, credo avere avere”), e inoltre dichiara di avere da fare conteggi personalmente con lo Scheggia, “O’ affare ragione con Giovanni di ser Giovanni dipintore, credo avere avere:” ancora conteggi per la bottega? Più tardi, ma ancora per tre anni e alle stesse condizioni, sappiamo da documenti che Niccolò di ser Lapo rinnova il contratto per l’affitto della bottega nel novembre 1441, questa volta associato a suo figlio, come vedremo tra poco32, mentre Io Scheggia già da tempo (almeno dal 1435, ma forse già nel 1433) teneva una bottega in Borgo Santi Apostoli a metà con altri, probabilmente con Marco del Buono.33 Nel Catasto del 1433 di Niccolò di ser Lapo si parla infatti, abbiamo visto, di un debito dello Scheggia, ma come se la cosa ormai non fosse più importante o di attualità, forse per conteggi ormai chiusi o in via di chiusura concordata.34

Tutto ciò mi fa supporre che in realtà nel 1425 Niccolò di ser Lapo già tenesse in affitto la bottega di piazza Sant’Apollinare dai tre anni precedenti, forse a partire sempre dal novembre, quindi dal 1422, almeno; ma anche da prima, poiché per Niccolò di ser Lapo è da registrare un cambiamento di residenza, che lo porta ad abitare nella zona, dopo il 1413. Infatti, in un documento inedito dell’Archivio delle Prestanze (Prestanza imposta il 28 ottobre 1413) Niccolò di ser Lapo è ricordato, con la madre, come appartenente al quartiere San Giovanni35, mentre egli nel 1427 (e poi di seguito) è accatastato in Santa Croce, Ruote; anzi nel Catasto del 1427 dice di aver versato il “Prestanzone” (cioè la Prestanza del 1426), già nel quartiere di Santa Croce, gonfalone Ruote: proprio a quest’ultimo quartiere e gonfalone appartiene il popolo di Sant’Apollinare dove aveva la bottega. Anzi, secondo i risultati proprio di questi ultimi giorni delle indagini di Annamaria Bernacchioni, questa bottega risulta già affittata a Francesco di Jacopo Arrighetti insieme a Niccolò di ser Lapo, definiti “dipintori,” nel maggio 1418:36 affitti con scadenze annuali. Questo Francesco di Jacopo Arrighetti, immatricolato all’Arte dei Medici e Speziali nel 1404, non è noto stilisticamente, e tuttavia mi appare assai interessante, per il nostro discorso, il fatto che sia figlio di un ‘legnaiolo’ e a sua volta iscritto a tale Arte nel 1422.37 Torneremo su questo punto più avanti.

Di conseguenza, è possibile che Masaccio, fin dal suo arrivo a Firenze alla fine del 1417- inizio 1418, si sia accomodato come apprendista/discepolo nella bottega di piazza Sant’Apollinare gestita da Francesco di Jacopo Arrighetti e Niccolò di ser Lapo. Non sono riuscita a reperire, per ora, alcun documento di conferma a ciò nel “Notarile Antecosimiano,” sul quale sto lavorando per seguire una non mai verificata (a mia conoscenza) indicazione del Fiorilli,38 secondo cui i maestri di bottega iscritti all’Arte dei Medici e Speziali (e quindi anche i pittori) dovevano consegnare al Notaio dell’Arte, nel gennaio-febbraio di ogni anno, degli elenchi con i nomi di tutti quelli che tenevano presso di loro, fossero o no immatricolati.

Dai Catasti di Niccolò di ser Lapo apprendiamo che nel 142739 questi era un benestante maestro dipintore di 52 anni, coniugato con una monna Caterina appena trentenne che gli aveva dato già due figli (una bambina, Tomasa, di 7 anni e un maschio, Giovanni, di 5) e che si apprestava a dargliene un altro: “monna Caterina mia donna è d’età d’anni 30 o circa ed è grossa aspettante il parto dì in dì, credo possiate mettere più uno figliuolo:” infatti nacque poi un’altra bambina, registrata col nome di Felicie nel Catasto del gennaio 1430/3140, dove è detta di età di un anno e mezzo. Nel 1421/22, quando Masaccio si iscrive all’Arte come Maestro, la mancanza di un collaboratore-erede diretto per la conduzione presente e futura della bottega pittorica, e la previsione di un prossimo abbandono del mestiere da parte di Francesco di Jacopo Arrighetti (che, dopo l’iscrizione all’Arte dei Legnaioli del 1422, sembra infatti abbandonare la bottega nel 1424 o circa41, e d’altronde nella ‘portata’ al Catasto del 142742 non parla affatto della bottega né della sua attività, dichiarando “truovomi vecchio e povero:” cosa che trova conferma nei catasti di Niccolò di ser Lapo) questa situazione, dicevo, avrà spinto il maestro Niccolò di ser Lapo a cercare di tenersi vicino il giovane brillante Masaccio già suo discepolo, anche dopo la sua raggiunta autonomia legale nella professione, associandolo alla bottega in una forma che poteva tornare utile ad entrambi, nella piena garanzia, per il più giovane Masaccio, fondata sulla sua stessa iscrizione all’Arte. Più tardi, nel 1441, Niccolò di ser Lapo si associa infatti il figlio Giovanni, diciannovenne, che tuttavia in seguito abbandonerà il mestiere e la bottega, come risulta dai Catasti successivi.43

Mi sembra questa una ragionevole ipotesi, fondata sulla analogia con la consuetudine del tempo e sulla presenza di consistenti indizi, anche se per ora non di documenti inoppugnabili: e tuttavia Niccolò di ser Lapo risulta, ad oggi, l’unico ‘dipintore’ connesso, nei documenti, con l’attività relativamente precoce di Masaccio.

Ma esiste un’altra ragione per la quale ritengo significativo il documentato rapporto di Masaccio con Niccolò di Ser Lapo, una ragione legata all’età di quest’ultimo e alla professione di suo padre, notaio, ma anche miniatore.44 Osservo con interesse, non sembrandomi una casualità, che notaio era anche il padre di Filippo di ser Brunellesco, che il Vasari ci testimonia estimatore del giovane Masaccio e suo assiduo consigliere e insegnante di prospettiva e di architettura: dice esplicitamente il Vasari che Brunelleschi fece le due tavolette prospettiche, per noi perdute, con le vedute di piazza San Giovanni e di piazza della Signoria, per dimostrare le regole della prospettiva ai pittori, e “particularmente la insegnò a Masaccio, pittore allor giovane, molto suo amico, il quale gli fece onore in quello che gli mostrò, come appare negli edifizi dell’opere sue;”45 affermazione questa che la critica moderna ha costantemente accolto e chiarito attraverso l’esegesi dei dipinti di Masaccio, in specie dell’affresco della Trinità in Santa Maria Novella, il cui recentissimo restauro ne ha evidenziato la precocità nel curriculum delle sue non molte opere, e inoltre l’attento impegno nella trascrizione puntuale di un modello (che poteva ispirarsi solo al Brunelleschi stesso, a questa data) sul quale Masaccio si applica per restituirlo con puntigliosa precisione, in un complesso esercizio di mano e di mente, che gli permetta di arrivare a possedere una volta per tutte la regola e il metodo della resa dello spazio illusionistico sul piano.

Malgrado la morte precoce, e ormai lontana, di suo padre, Masaccio in tutti i documenti professionali che lo riguardano e sempre detto ‘di ser Giovanni,’ come d’altronde suo fratello, lo Scheggia: ciò è abbastanza singolare in assoluto (di solito, nei documenti quattrocenteschi, si indica che il genitore è ormai morto attraverso la formula, talvolta ancora in uso, ‘fu’). Ritengo che questa ‘anomalia’ possa avere un significato specifico (essendo presente anche per Niccolò di ser Lapo, il cui padre era certo già morto nel 1413 quando Niccolò è tassato per la ‘prestanza’ con la madre), in relazione all’appartenenza alla ricca casta dei Notai, raggruppati a Firenze nella potente Arte dei Giudici e Notai, che aveva sede proprio di fronte alla Badia fiorentina, in via del Proconsolo, a pochi passi dalla bottega di Masaccio, che già da tempo era anche di Niccolò di ser Lapo. Secondo una ragionevole proposta di Alessandro Guidotti46 di diversi anni fa, proprio per questa Arte, la cui chiesa di riferimento era appunto la Badia, Masaccio eseguì un affresco, perduto, con Sant’Ivo (il protettore dell’Arte stessa), molto lodato dal Vasari.47

Non mi sembra inverosimile ritenere che il giovane Masaccio, giungendo a Firenze forse all’inizio del 1418 o circa, con l’intenzione di completare l’apprendistato presso una bottega artistica di ‘dipintore’ (certo non romanticamente come uno sprovveduto bohémien in cerca di fortuna) si sia appoggiato sulle credenziali che poteva avere presso l’Arte cui aveva aderito suo padre e che proteggeva i ‘pupilli’ (i non abbienti, certo, per i quali a partire dal 1415 vennero stipendiati annualmente un Giudice e un Notaio48, e non era questa la condizione del giovane Masaccio) e tuttavia, secondo le usanze di tutte le associazioni del tempo, a maggior ragione proteggevano quelli che, come lui, erano ‘pupilli’ di un loro membro: il fatto poi che in questo tempo Niccolò di ser Lapo condividesse la bottega con Francesco di Jacopo Arrighetti, pittore coinvolto per certo in attività connesse all’Arte dei Legnaioli, cui abbiamo visto collegato anche Masaccio attraverso la professione della famiglia paterna, rende ancora più credibile l’ipotesi qui esposta.

Niente sappiamo, per ora, della professionalità di Niccolò di ser Lapo, e questo è indubbiamente un grave handicap, che tuttavia non può vanificare la realtà documentaria della sua stretta connessione con Masaccio, e d’altronde conosciamo elementi importanti che vanno valutati attentamente: il fatto che suo padre fosse miniatore oltre che notaio ci fa meglio comprendere il suo coinvolgimento, risultante dalle portate al Catasto, con pittori-miniatori come Bartolomeo di Fruosino49, del quale è ben nota una significativa miniatura relativa alla cerimonia della Consacrazione di Sant’Egidio, datata 1421 e completata da una iscrizione in quei caratteri ‘all’antica’ che anche Masaccio userà poco dopo nel trittico di San Giovenale, e poi Antonio di Matteo Torelli e Matteo di Filippo Torelli50, anche loro attivi miniatori del tempo: vedremo tra poco l’importanza di questo elemento nei confronti di Masaccio. Quanto al primitivo socio di Niccolò di ser Lapo, quel Francesco di Jacopo Arrighetti di cui abbiamo detto, si trattava di un maestro che si muoveva presumibilmente nell’ambito di Mariotto di Nardo, del quale fu collaboratore nel 1412 per la realizzazione di una tavola destinata all’altare Gucci-Tolomei in Santo Stefano al Ponte:51 forse questo elemento potrebbe servire di punto di partenza per una possibile ricerca anche su Niccolò di ser Lapo, oltre che sull’Arrighetti. Noto comunque con interesse che per San Giovanni Valdarno Mariotto di Nardo eseguì un trittico destinato alla Pieve di San Giovanni (oggi Museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie) rappresentante la Crocifissione con la Vergine e la Maddalena e i Santi Jacopo e Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Antonio Abate, databile al primo decennio del Quattrocento, e quindi per certo ben noto al giovane Masaccio: il dipinto, recentemente restaurato52, mostra caratteri spiccatamente neo-giotteschi per il forte plasticismo delle figure e la semplicità delle pose e dei panneggi oltre che della impaginazione. Nel suo saggio presentato in questo stesso volume, Annamaria Bernacchioni tende significativamente a connettere, con ben meditate argomentazioni in stretto e positivo rapporto a quanto fin qui esposto, la formazione più specificamente artistica di Masaccio almeno in parte con l’attività di Mariotto di Nardo, rivelando anche un coinvolgimento documentato di Francesco Arrighetti nel campo della miniatura, elemento a mio parere assai significativo in relazione al discorso svolto in queste pagine.

Altri elementi che mi appaiono importanti sono la documentata attività, cui partecipa anche Masaccio, di Niccolò di ser Lapo dipintore come pittore-decoratore di rango, scelto dai Canonici del Duomo di Fiesole; il buon avviamento della sua bottega deducibile dalle sue ‘portate’ al Catasto, ed anche l’elevato grado di cultura che risulta dalle stesse, autografe, molto ordinate nella grafia minuta e precise nella organizzazione della pagina (alla fine del foglio è segnato puntualmente “volta di là”), testimonianza, a mio parere, del suo coinvolgimento professionale nell’ambito della decorazione libraria: ciò d’altronde assicura anche per lui un curriculum scolastico esteso e di buon livello, che fa supporre una attività ugualmente di rango.

Sappiamo infine che Niccolò di ser Lapo, nato verso il 1375 e immatricolato all’Arte dei Medici e Speziali nel 1401-2 come abbiamo già detto, si iscrisse tuttavia alla Compagnia di San Luca, cui appartenevano i pittori, solo quando era circa cinquantenne, nel 1424, lo stesso anno del coetaneo Francesco di Jacopo Arrighetti, ma anche di Masaccio e di Masolino,53 ed anche lo stesso anno in cui avvenne la morte di Mariotto di Nardo: forse anche questo non è un caso fortuito, e a mio avviso potrebbe indicare il costituirsi a questo momento tra di loro di una ‘compagnia’ più ampia, includente anche Masolino, il quale era rimasto libero avendo nel frattempo concluso quella, con probabilità costituita al suo rientro a Firenze nel settembre 1422, con un altro valdarnese operante a Firenze, Francesco d’Antonio, secondo una circostanziata proposta di Cecilia Frosinini in corso di pubblicazione:54 d’altronde, abbiamo visto, sembra che Francesco Arrighetti proprio intorno a quell’anno si ritirasse o si stesse ritirando dall’attività.

Devo ancora a Cecilia Frosinini la preziosa informazione, risultante da una sua ricerca nell’archivio notarile antecosimiano di anni fa, non pubblicata, secondo cui nel 1420 (o poco prima) solo dodici sono gli iscritti alla Compagnia di San Luca: era quindi del tutto opzionale l’appartenenza ad essa (e non così estesa e appetibile essendo sottoposta a tassa), ciò che rende più verosimile l’ipotizzato sodalizio.55 È d’altronde proprio a questo periodo, 1424 circa, che risale la prima collaborazione professionale finora nota tra Masaccio e Masolino, cioè la tavola con la Sant’Anna Metterza per la chiesa di Sant’Ambrogio: e qui si potrebbe aprire una parentesi di carattere filologico per accertare se, oltre a Masaccio e a Masolino, possano rintracciarsi altre ‘mani’ nella esecuzione del dipinto, magari in relazione alla fattura, di minore qualità, degli angeli al lato della Vergine, o degli elementi di artigianato decorativo, quelli invece di altissimo livello.

Tuttavia, gli studi recentissimi (e in corso) ancora di Cecilia Frosinini per l’Opificio delle Pietre Dure sulla pala della cappella Carnesecchi in Santa Maria Maggiore56, opera di Masolino nell’ordine maggiore, cui risulta appartenere il frammento di predella della Fondazione Horne, di Masaccio, con la Storia di San Giuliano, precisano anche la datazione della decorazione della stessa cappella proprio intorno alla fine del 1423 o inizio 1424, ponendosi dunque come il primo momento della collaborazione tra i due maestri; ed anche l’inizio dei lavori alla cappella Brancacci è da porsi, con probabilità, nello stesso 1424, dopo il rientro di Masolino da Empoli nel novembre, con l’intervento di poco scalato nel tempo di tutti e due i maestri, secondo le più attendibili e recenti ipotesi. Quindi una collaborazione, da questo momento, assai intensa.57

Dunque, tirando le somme, sono propensa, allo stato attuale delle conoscenze oggettive che abbiamo, ad individuare proprio nella bottega gestita da Francesco di Jacopo Arrighetti e da Niccolò di ser Lapo di Giovanni dipintori, connessa strettamente anche con quella ben nota artisticamente di Mariotto di Nardo, il luogo presso il quale Masaccio ebbe a completare il tempo necessario del suo tirocinio per iscriversi come maestro autonomo all’Arte dei Medici e Speziali, dopo il periodo svolto in patria: tirocinio che d’altronde certo non poteva essere per lui autenticato dal Brunelleschi, iscritto originariamente ad altra Arte anche se affine (quella degli Orafi dal 1398). E d’altronde Brunelleschi negli anni utili per Masaccio (dal 1417-18 in avanti), pur presente con buona continuità a Firenze, è del tutto coinvolto ormai nei problemi dell’architettura e della prospettiva, nei quali soltanto, a detta delle fonti, istruì Masaccio.

E tuttavia proprio a lui, Filippo di ser Brunellesco, probabilmente attraverso una presentazione da parte dell’Arte dei Notai, se non addirittura attraverso lo stesso Niccolò di ser Lapo (che era un coetaneo del Brunelleschi, ed anche del padre di Masaccio ser Giovanni di Mone) Masaccio poté rivolgersi, e poi ottenerne fiducia e quindi anche insegnamenti preziosi, negli anni esaltanti e difficili della formazione più significativa, a completare ciò che poteva apprendere nella bottega pittorica di Niccolò di ser Lapo e dei suoi ‘amici’ una bottega che, per ragioni non solo di cronologia, possiamo pensare coinvolta nel gusto tardo gotico fiorentino di radice ancora neo-giottesca e per lo più attiva nel campo della pittura su tavola (e di forzieri) e della miniatura, dati i rapporti documentati con diversi miniatori e il coinvolgimento dello stesso Arrighetti in questa attività, puntualizzato oggi da Annamaria Bernacchioni, come abbiamo visto prima. Residui tardo gotici si possono notare ancora nei Santi a sinistra del trittico di San Giovenale di Masaccio, un’opera iniziale (anche se certo non sua ‘opera prima’) precedente all’incontro e al sodalizio con Masolino, del quale infatti non c’è alcuna traccia, ma già in contatto invece con Brunelleschi e Donatello. E forse anche questo ‘insegnamento’ di Brunelleschi potè essere quantificato e valutato per l’iscrizione nel ‘ruolo’ dei Pittori, vista anche l’insistenza delle fonti nel considerare Masaccio in qualche modo discepolo di Filippo di ser Brunellesco, sebbene sempre, correttamente, facendo riferimento alle “cose di prospettiva.”

Mi conforta, nell’ipotesi qui esposta, la considerazione che essa non contraddice con i risultati emersi dai recenti e approfonditi studi sulla tecnica pittorica di Masaccio portati avanti dagli studiosi e dai tecnici dell’Opificio delle Pietre Dure, in particolare da Cecilia Frosinini e Roberto Bellucci, che ne hanno dato resoconto importantissimo già nel Convegno del dicembre 2000 tenuto presso la Pieve di San Pietro a Cascia ed ora anche in un apposito volume e nella relazione al Convegno di Studi del maggio 2002:58 in tali occasioni è stata presentata la motivata convinzione, basata proprio sull’analisi approfondita ed elaborata dei dati tecnici relativi alla pittura di quella tavola, secondo cui Masaccio si sarebbe formato in un ambito di artigianato artistico collegato specialmente ai maestri miniatori e forzerinai.

Il continuativo collegamento di Masaccio con la sua terra originaria, peraltro ovvio e ricordato nelle fonti, è documentato storicamente dalla sua iscrizione all’Estimo del Contado nel 1426 e dalla sua ‘portata’ al Catasto del Contado del luglio 1427, non meno che dalla presenza sul territorio della sua opera più antica tra quelle pervenute e riconosciute fino ad ora, il trittico di San Giovenale.59 Tuttavia, riallacciandomi a ciò che abbiamo letto nel testo del Vasari in apertura di questo contributo, credo che sia utile tornare a meditare su un dipinto, un affresco (fig. 2) purtroppo non ben conservato perché giunto acefalo e molto consunto, presente a San Giovanni Valdarno, in San Lorenzo, parrocchia alla quale apparteneva la famiglia di Masaccio, nella parete di controfacciata: è stato, ormai molti anni fa, Luciano Berti a indicarlo in connessione con l’attività giovanile di Masaccio, in particolare col trittico di San Giovenale da lui ritrovato; una connessione accettata da Paul Joannides, e ancora più recentemente anche da John Spike:60 due studiosi che lo indicano come il più probabile nuovo ‘candidato’ all’autografia masaccesca emerso negli studi recenti, pur lamentandone il cattivo stato di conservazione, che rende più difficile il giudizio attributivo.

Tuttavia, per non mascherarsi troppo dietro una pur oggettiva difficoltà di giudizio per lo stato in cui l’affresco ci è giunto, mi pare necessario notare come la giustezza del rapporto proporzionale con la finta nicchia che lo contiene, di struttura architettonica non più gotica, l’appiombo semplice e convincente delle vesti, che in basso debordano dalla incorniciatura stessa, la struttura sintetica delle mani che impugnano il pastorale in un modo che non può non ricordare da vicino i Santi del trittico di Cascia, siano tutti elementi che non mi pare possano essere trascurati o accantonati, trattandosi di un dipinto databile intorno al 1420, a quel che si può giudicare oggi: e chi altri, oltre al giovanissimo Masaccio ancora in fase di crescita professionale, in questo torno di tempo, poteva ragionare, e fare pittura, in questi termini, a San Giovanni Valdarno? Per me, non certo Giovanni di Ser Giovanni, lo Scheggia, il fratello di Masaccio ma troppo minore, in tutti i sensi, ancorché piacevole, del quale peraltro la stessa chiesa conserva diversi lavori a fresco facilmente confrontabili dunque con questo Santo acefalo per rilevarne altrettanto facilmente, a mio parere, invalicabili differenze, di gusto, di conduzione stilistica e tecnica, e di qualità.61

Concludo dunque citando, perché davvero pertinenti al senso del nostro discorso, le parole con cui Luciano Berti, grande studioso di Masaccio al quale sono grata, termina il suo volume del 1988 sul pittore: “Ancora una volta la rete buttata a tentar di ripescare altro materiale della storia, ci presenta un frammento concreto però enigmatico; però appunto è il nostro mestiere, e richiede pazienza, ed ogni apporto ulteriore aiuta a meglio ricomporre il contesto.”62

 

Particolare, foto di Sailko

 

 

NOTE

Con la sola  aggiunta delle note e pochi adattamenti, pubblico il testo della conferenza tenuta il martedì 9 aprile 2002 presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz, in parte riassunta nel mio breve saggio intitolato “Sulla ‘educazione ‘ di Masaccio” incluso nel catalogo della mostra di San Giovanni Valdarno “Masaccio e le origini del Rinascimento, Milano, Skira, 2002, pp. 77-81. Al mio studio si abbina oggi il lavoro documentario di Annamaria Bernacchioni sulla bottega di piazza Sant’Apollinare cui afferiva Masaccio, lavoro del quale la stessa studiosa mi aveva gentilmente fornito notizia mentre era ancora in preparazione.

   

1  All’epoca di Masaccio, infatti (e fino a non molto tempo fa, precisamente fino al Nuovo Calendario per la Chiesa Universale promulgato da Paolo VI il 14 febbraio 1969) il dies faestus dell’apostolo Tommaso cadeva in tale data, tempo del suo martirio in India e quindi, cristianamente, della sua ‘rinascita’ alla vita eterna: oggi cade invece il 3 luglio.

2   Vasari-Milanesi, II, pp. 288-289.

3    Ibidem, 300.

4   Cfr. Robert Davidsohn, Geschichte von Florenz, Berlino 1927, IV, 2, pp. 82 e sgg.; IV, 3, pp. 113 e sgg. (ed. italiana Firenze 1965, VI, 1, p. 172; VII, 3, pp. 211 e sgg.); Yves Renouard, Storia di Firenze, Firenze 1970, p. 59 e seguenti.

5   Cfr. Ugo Procacci, Documenti e ricerche sopra Masaccio e la sua famiglia: le portate al catasto di Giovanni di ser Giovanni detto lo Scheggia, in: Riv. d’arte, XXXVIII, 1984, pp. 247-250.

6   Anna Padoa Rizzo, La cappella dell’Assunta nel Duomo di Prato, Prato 1997, pp. 35 e segg.

7  Cfr. Margaret Haines, Il mondo dello Scheggia: persone e luoghi di una carriera, in: Luciano Bellosi/Margaret Haines, Lo Scheggia, Firenze 1999, pp. 35-71 (38).

8  Cfr. in questo senso ciò che è testimoniato dai “Ricordi” di Giovanni Morelli a proposito della scolarizzazione di ragazzini ben svegli e stimolati (Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, ed. a cura di Vittore Branca, Firenze 1956, p. 457): ringrazio Luciano Berti per la gentile segnalazione.

9   Lucilla Bardeschi Ciulicb, La scrittura di Masaccio, in: Masaccio. Il Trittico di San Giovenale e il primo ‘400 fiorentino, atti dei convegni a Cascia 2000, 1998, 1989, a cura di Caterina Caneva, Milano 2001, pp. 205-207.

10  Antonio Marietti, Vita di Filippo di ser Brunellesco, a cura di Elena Toesca, Firenze 1927, p. 6.

11  Estimo del 1402: “Mone et Laurentius Andreucci cassaius,” ASF, Estimo del Contado, Quartiere Santa Croce, Comune di Castel San Giovanni, vol. 34, c. 65; cfr. Ugo Procacci, Documenti e ricerche sopra Masaccio e la sua famiglia, in: Riv. d’arte, XIV, 1932, pp. 489-503, n. 7.

12  ASF, Estimo del Contado, Quartiere Santa Croce, Piviere Cavriglia, comune Castel San Giovanni, vol. 91, C.294v. Lo stesso è da intendersi anche per la dizione dell’altra copia dell’Estimo del 1426 (ibidem, vol. 36, c. 107), intestata a “Maso e Giovanni di ser Giovanni di Mone chassai in Firenze.” Cfr. Procacci (n. 11).

13 ASF, Estimo del Contado, Quartiere Santa Croce, Piviere Cavriglia, comune Castel San Giovanni, vol. 35, c. 91. L’attività del nonno Mone e dello zio Agnolo è documentata anche dall’Estimo del 1426 (ibidem, vol. 91, c. 288v; cfr. Procacci [n. 11 ]). Come ho detto prima, questo rende perfettamente conto del fatto che ancora nell’Estimo del 1426 Masaccio e suo fratello Giovanni siano indicati come “chassai in Firenze.”

14 Ugo Procacci, Masaccio e la sua famiglia negli antichi documenti, in: Storia del Valdarno, San Giovanni Valdarno 1981,11, pp. 553-559.

15  Cfr L’Oreficeria nella Firenze del Quattrocento (cat. della mostra a cura di Maria Grazia Ciardi Dupré Dal Poggetto), Firenze 1977, pp. 104-105.

16  ASF, Arte dei Legnaiuoli, 6, c. 47; cfr. James Beck, Masaccio. The documents, Locust Valley, N. Y. 1978, p. 8, doc.IV.

17  Cfr. Anna Padoa Rizzo, L’attività di Benozzo Gozzoli per la compagnia di Santa Maria delle Laudi e Sant’Agnese (1439, 1441), in: Riv. d’arte, XLIII, 1991, pp. 203-210; eadem, Una lunga vita operosa, in: Benozzo Gozzoli allievo a Roma, maestro in Umbria (cat. della mostra, Montefalco 2002), Milano 2002, pp. 15-39 (17-18).

18  Luciano Berti, Masaccio, Firenze 1988, p. 45.

19 Cfr. particolari di naturalistica resa pittorica ispirati da brani di Masaccio stesso: si vedano i due personaggi a destra nella scena della Esaltazione delle reliquie di Santo Stefano, dei quali uno riproduce il committente Michele di Giovannino Marcovaldi e l’altro forse lo stesso Paolo Uccello (cfr. Padoa Rizzo [n. 6]) ispirati ai due altrimenti icastici ritratti masacceschi dietro al San Pietro che battezza i neofiti, anche per l’osservazione, che in Andrea di Giusto risulta minuziosa mentre in Masaccio si sostanziava di un naturalismo immediato, della ricrescita della barba mal rasa sui volti. Anche in altri brani degli affreschi pratesi Andrea di Giusto ripropone, come può, personaggi ispirati dagli affreschi Brancacci, che ad evidenza conosceva bene e dai quali forse aveva tratto appunti. È possibile inoltre che dalla parzialmente perduta predella, dipinta da Masaccio, dell’altare Carnesecchi in Santa Maria Maggiore a Firenze discenda la concisa ma eloquente impaginazione della scena col Martirio di Santa Caterina reperibile nella predella della pala dell’Assunta e Santi di Andrea di Giusto, datata 1437, alla Galleria dell’Accademia a Firenze.

20  ASF, Arte dei Medici e Speziali, 21, c. 137. Cfr. Beck (n. 16), p. 11, doc. VII.

21  Per il ‘diario’ di Giusto di Andrea cfr. Giovanni Gaye, Carteggio inedito di artisti, Firenze 1839, 1, pp. 209-213; Anna Padoa Rizzo, Benozzo Gozzoli pittore fiorentino, Firenze 1972, p. 67; eadem, Pittura, architettura e scultura nelle storie agostiniane di Benozzo Gozzoli, in: Benozzo Gozzoli: Le Storie di Sant’Agostino a San Gimignano, Atti del Convegno Internazionale di San Gimignano 1998, a cura di Roberto Cardini/Anna Padoa Rizzo/Mariangela Regoliosi, Roma 2001, pp. 1-9 (8-9).

22  Cfr. ASF, Accademia delle Arti del Disegno e Prima Compagnia dei Pittori, 1, c. 12. Cit. Beck (n. 16), p. 14.

23  L’abitazione di Masaccio in questo tempo doveva già essere nel popolo di San Michele Visdomini, Quartiere San Giovanni, nell’attuale via dei Servi, vicino al Duomo; cfr. Luciano Berti, Masaccio, Milano 1964, p. 141, nota 92; Beck (n. 16), p. 29.

24  ASF, Catasto, Contado, Quartiere Santa Croce, Piviere di Cavriglia, Comune di San Giovanni, 114, cc 294-295. Cfr. Beck (n. 16), pp. 24-25.

25 Alessandro Guidotti, in: Ernesto Sestan/Maurilio Adriani/Alessandro Guidotti, La Badia Fiorentina, Firenze 1982, p. 95, n.214.

26 Cfr. Margaret Haines, Una ricostruzione dei perduti Libri di Matricole dell’Arte dei Medici e Speziali a Firenze dal 1353 al 1408, in: Riv. d’arte, XLI, 1989, pp. 173-207(206).

27 Cecilia Frosinini, Un contributo alla conoscenza della pittura tardogotica fiorentina: Bonaiuto di Giovanni, in: Riv. d’arte, XXXVII, 1984, pp. 107-131 (109-110).

28  Cfr. Colnaghi, Dictionary, p. 148.

29  Haines (n. 7), p. 38.

30  ASF, Catasto, Santa Croce, Ruote, anno 1431, vol. 359, cc. 775-777 v. Cfr. Beck (n. 16), p. 54, Appendice, doc. 19.

31 ASF, Catasto, Santa Croce, Ruote, anno 1433, vol. 453, c. 665. Cfr. Ugo Procacci, Documenti e ricerche sopra Masaccio e la sua famiglia (continuazione), in: Riv. d’arte, XVII, 1935, pp. 91-111 (101).

32  Colnaghi, Dictionary, p. 148.

33  Annamaria Bernacchioni, Botteghe di artisti e artigiani nel XV secolo, in: Giampaolo Trotta, Gli antichi chiassi tra Ponte Vecchio e Santa Trinità, Firenze 1992, pp. 209-213; eadem, Le botteghe di pittura: luoghi, strutture e attività, in: Maestri e botteghe. Pittura a Firenze alla fine del Quattrocento (cat. della mostra a cura di Mina Gregori et alii, Firenze 1992-1993), Cinisello Balsamo 1992,  pp. 23-33; Haines (n. 7), p. 41.

34  Dal Catasto del 1446/47 (ASF, Catasto, Santa Croce, Ruote, vol. 665, c. 427) apprendiamo che Niccolò di ser Lapo, ormai vecchio, non lavora più, e non tiene più la bottega, poiché suo figlio Giovanni, di ventitré anni, non ha poi continuato il mestiere, ma “sta chon Bonifazio speziale chon pocho salario:” parole sconsolate certo a uso e consumo degli Ufficiali del Catasto (Niccolò di ser Lapo appare in realtà assai benestante), ma che mostrano anche una sincera delusione di diverse attese e speranze.

  35 ASF, Prestanze 2904, c. 172: “Niccholo di ser Lapo dipintore ellamadre fiorini due—ff II”

 36 Anche in seguito Niccolò di ser Lapo continuò ad abitare nello stesso quartiere e gonfalone, sebbene nel popolo di San Simone, dove certo abitava nel 1436, secondo un documento di compravendita (citato da Luigi Tanfani Centofanti, Notizie di artisti tratte da documenti pisani, Pisa 1898, pp. 401-402) di un podere con casa da lavoratore, ma dove probabilmente stava già a partire dal 1434, come si può ricavare dal suo Catasto del 1446/47 (n. 34).

37  Cfr. Werner Jacobsen, Die Maler von Florenz. Zu Beginn der Renaissance, Monaco/Berlino 2001, p. 556.

38  Carlo Fiorilli, I dipintori a Firenze nell’Arte dei Medici, Speziali e Merciai, Firenze 1921, p. 26.

39  ASF, Catasto, Santa Croce, Ruote, anno 1427 (12 luglio), vol. 37, cc. 999-1000.

40 ASF, Catasto, Santa Croce, Ruote, anno 1430/31 (31 gennaio), vol. 359, cc. 775-777.

41  Egli per certo appare ancora tra i debitori di Niccolò di ser Lapo, per qualche fiorino, nei citati Catasti di Niccolò del 1427, 1431, 1433.

42  ASF, Catasto, Santa Croce, Ruote, anno 1427, vol. 36, c. 388. Devo ad Annamaria Bernacchioni la segnalazione e la trascrizione della ‘portata’ di Francesco di Jacopo Arrighetti. Il ‘campione’ del Catasto del 1427 del pittore è citato da Jacobsen (n. 37), p. 556.

43  Cfr. n. 34.

44  Colnaghi, Dictionary, p. 148.

45  Vasari-Milanesi, II, p. 332 (“Vita di Filippo Brunelleschi'”).

46 Alessandro Guidotti, in: Il notaio nella civiltà fiorentina. Secoli XIII-XVI (cat. della mostra), Firenze 1984, pp. 233-234, 255-256.

47 “Nella Badia di Firenze dipinse a fresco in un pilastro, dirimpetto a uno di quegli che reggono l’arco dell’altar maggiore, Sant’Ivo di Brettagna, figurandolo dentro a una nicchia, perché i piedi scortassino alla veduta di sotto […] e sorto il detto Santo […] gli fece intorno vedove, pupilli e poveri, che da quel Santo sono nelle loro bisogne aiutati,” cfr. Vasari-Milanesi, II, pp. 290 291.

48  Cfr. nota 46.

49 Per Bartolomeo di Fruosino cfr. ASF, Catasto, San Giovanni, Chiavi, anno 1427, vol. 80, c. 80; tuttavia, tra i suoi ‘incarichi’ non è ricordato alcun debito nei confronti di Niccolò di ser Lapo.

50 Per Antonio di Matteo (Torelli) cfr. Mirella Levi d’Ancona, Miniatura e miniatori a Firenze dal XIV al XVI secolo, Firenze 1962, p. 18; per il suo Catasto ASF, Catasto, San Giovanni, Leon d’oro, anno 1427, vol. 78, c. 226v, dove è ricordato il debito con Niccolò di ser Lapo, per un valore di 6 fiorini e due soldi. Per Filippo di Matteo Torelli, cfr. Colnaghi, Dictionary, pp. 261-262; nel Catasto del 1427 (San Giovanni, Vaio, vol. 81, e. 315v, portata di Matteo di Filippo Torelli), Filippo di Matteo è detto di anni diciotto; nei confronti di Niccolò di ser Lapo non è ancora ricordato alcun debito, che d’altronde compare nel Catasto di Niccolò di ser Lapo non prima del 1431.

51 Cfr. Sonia Chiodo, Pittori attivi in Santo Stefano al Ponte a Firenze e un’ipotesi per l’identificazione del Maestro della Madonna Straus, in: Paragone, XLIX, 3a ser., 18, 1998, pp. 48-69 (52); Jacobsen (n. 37). p. 556.

52 Cfr. La memoria dell’arte. Restauri a San Giovanni Valdarno, cat. della mostra a cura di Laura Speranza, Firenze 2000, pp. 20-21, 57-59.

53 ASF, Accademia del Disegno, Compagnia di San Luca e dell’Arte dei Pittori, no. 1, c. 12, per Masolino e per Masaccio, i cui nomi appaiono in immediata sequenza; c. 8v per Francesco di Jacopo Arrighetti; c. 13 per Niccolò di ser Lapo.

54 Si veda, ora, Cecilia Frosinini/Roberto Bellucci, in: The panel paintings of Masolino and Masaccio. The role of technique, Milano 2002, p. 40.

55 Dalla lettura del 1° volume del fondo dell’Accademia del Disegno sopra citato, si ricava che anche Giovanni Toscani si iscrisse alla Compagnia di San Luca nel 1424, mentre lo Scheggia lo fece solo dopo la morte del fratello, nel 1430; cfr. Haines (n. 7), p. 38-39.

56  Cfr. il volume citato in nota 54, pp. 81-88.

57  E qui si innesterebbe il problema del rapporto con Paolo Uccello, che prese parte alla decorazione della cappella Carnesecchi in Santa Maria Maggiore con l’esecuzione di affreschi rappresentanti una Annunciazione e quattro Profeti nel sott’arco, e che abbandonò Firenze nello stesso periodo di Masolino (fece testamento il 5 agosto), per recarsi a Venezia; soltanto un caso fortuito? Ma questo problema, in corso di studio e assai complesso, desidero per ora accantonarlo.

58  Cfr. n. 54.

59 A mio parere eseguito in ricordo (se non addirittura in occasione) della Consacrazione della chiesa di San Giovenale a Cascia, festa che, secondo precisi documenti, vi si celebrava annualmente pochi giorni dopo quel 23 aprile che è la data iscritta nel trittico stesso, precisamente il 3 di maggio, festa della Santa Croce (della quale la chiesa di San Giovenale conservava una venerata reliquia) oltre che del Santo patrono Giovenale; trittico che a mio parere fu eseguito per volontà e con le elemosine del ‘popolo,’ cioè del fedeli tutti (come dimostra una più aderente lettura dell’iconografia fondata sulla esaltazione del tema eucaristico e salvifico, ed anche della struttura prospettica dell’insieme, e la mancanza di qualunque esplicito riferimento ad un committente particolare), e non di una singola famiglia come è stato spesso ipotizzato, in realtà senza alcun elemento davvero fondante, né da un punto di vista iconografico né storico; Cfr. Anna Padoa Rizzo, Gli esordi di Masaccio: committenti e fruitori, in: Masaccio 1422 (n. 9), pp. 155-160.

60 John Spike, Masaccio, Milano 1995, p. 207, con bibliografia; vedo con piacere che condivide la mia opinione anche Lucia Sacchetti Lelli, Arte e storia a San Giovanni Valdarno, Fiesole 2002, p. 63.

61 Si veda a proposito Anna Paola Rizzo, Sulla educazione di Masaccio, in: Masaccio e le origini del Rinascimento (cat. della mostra a cura di Luciano Bellosi, San Giovanni Valdarno 2002-2003 pp. 77-81 (80)

62  Berti (n.18), p. 59

 


 

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