Andrea De Marchi : Il Maestro del 1310 e la fronda anti-giottesca

Il ‘Maestro del 1310’ e la fronda anti-giottesca: intorno ad un ‘Crocifisso’ murale

di Andrea De Marchi

Da Prospettiva, Firenze, Centro Di, 1986, 46, pp. 50-56

 

Fig. 1) ‘Maestro del 1310’: ‘Crocifisso’. Pistoia, San Francesco. (Foto d Aurelio Amendola)

 

In quel gran palinsesto di testimonianze pittoriche trecentesche costituito dalle vaste pareti della chiesa francescana di Pistoia, edificata a partire dal 1294, un grandioso ‘Crocifisso’ in affresco,1 campeggiante in fondo al transetto destro, non sembra aver ancora ricevuto un’adeguata attenzione (fig. 1). Esso tuttavia non può dirsi del tutto sconosciuto alla critica, se solo si pensa che una sua parziale riproduzione trovò posto, già nel lontano 1907, nel quinto volume della ponderosa Storia dell’arte italiana di Adolfo Venturi.

Questi lo citava come da poco ‘uscito fuor dallo scialbo che lo ricopriva’, probabilmente a seguito di quei saggi degli intonaci patrocinati in quegli anni dai fratelli Chiappelli e che di lì a poco porteranno al completo ma un po’ fortunoso discoprimento degli affreschi del coro.3 Peraltro allora ben poco era in vista oltre al frammento riprodotto a stampa dal Venturi.4 In quella illustrazione si scorge infatti un fregio a motivi vegetali, sovrapposto al torace di Cristo sempre in epoca trecentesca e che incorniciava due affreschi della seconda metà del secolo, raffiguranti uno la ‘Madonna in trono, due angeli e quattro santi’, l’altro la ‘Crocifissione’, i quali vennero poi strappati e collocati al principio della navata, sulla parete destra, dove si trovano tuttora.5 Ciò è ancora chiaramente leggibile in una vecchia foto Brogi (neg. n.22473), databile alla fine degli anni ’20 e comunque prima del 1934, dove compare pure la struttura cinquecentesca di un altare in pietra serena, collocato in fondo al transetto e poi smantellato.

Alcune tracce di quel fregio decorativo sussistevano, all’estremità destra della parete, in epoca ben più vicina a noi, come testimonia una foto della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Firenze (neg. n. 224176), eseguita intorno al 1975. Già da qualche tempo, non esattamente precisabile, il gigantesco ‘Crocifisso’ murale era stato interamente liberato dalle sovrapposizioni, mentre solo in seguito venne operato il necessario consolidamento e restauro delle superfici, che però comportò la perdita di alcuni particolari, come il brano decorativo succitato o la chiara identificazione di una figura di dolente a sinistra della croce. E, infatti, di fronte a che tipo di raffigurazione ci troviamo?

Apparentemente potrebbe sembrare un Crocifisso monumentale che per economia si sia voluto fingere a fresco, di modo da risparmiare le spese implicate dalla carpenteria, dalle dorature e via dicendo. L’idea di riprodurre in affresco polittici o addirittura rilievi tombali si trova più volte nel Trecento, congiurandovi le rinnovate potenzialità illusive della pittura.6 Ma in questo caso le anomalie non si limitano al fatto, che andrà discusso più estesamente, per cui in luogo dell’usuale carpenteria di un Crocifisso ligneo è qui riprodotta, ed incongruamente ingigantita, la sagoma di una crocellina astile. La figurazione puramente iconica doveva infatti essere integrata da figure di dolenti. Le tracce di un panneggiamento, quali compaiono sulla sinistra (meglio leggibili nella foto precedente il restauro), sono condotte da lunghe pieghe spezzate caratteristiche del pittore nello stesso perizoma di Cristo, certificandoci così la pertinenza di questi frammenti alla concezione generale.

L’incompiutezza di tali brani e del fondo blu contro cui si definisce il contorno della croce, fa supporre che il lavoro sia stato bruscamente interrotto, ciò che pare confermato pure dalla sopravvivenza di resti della quadrettatura battuta con filo intinto di sinopia e che non doveva certo comparire in vista. Tuttavia non si tratta nemmeno di una tradizionale ‘sinopia’ o strato preparatorio per una successiva stesura in affresco, dal momento che non è dipinto sull’arriccio ma su di un intonaco ben levigato e che infatti è stato necessario martellinare per scialbarne la superficie. Questa sorta di ‘disegno’, attentamente rifinito nel volto e nel perizoma, è realizzato a fresco in color seppia, mentre doveva poi probabilmente venire completato da stesure a secco e da lumeggiature in biacca, sì da presentarsi alla fine come un ‘chiaroscuro’, come una figurazione ‘economica’ sul genere di quelle in terretta verde.7 Ma prima ancora delle anomalie di ordine iconografico e tipologico, sono le singolarità stilistiche della figurazione, le proporzioni abnormi di questo Cristo smisurato ed esilissimo, la definizione insieme cruda ed intensamente adombrata del volto, l’eruzione gotica del perizoma, che devono averne reso a lungo ostico l’apprezzamento e la chiara definizione critica. L’idea irrazionale come il vibrato ed astratto patetismo che lo anima non rientrano a ben vedere nei canoni strettamente giotteschi entro cui il Venturi voleva leggere il frammento del volto quando lo collegava al vasariano Puccio Capanna, diretto ‘discepolo di Giotto’, insieme ad una lunetta contigua, sopra la porta della sacrestia, e alle storie francescane nel coro della stessa chiesa.8 Al Venturi spetta peraltro il merito di aver avvertito, pur da quel resto, la qualità dell’opera, la ‘sua grandiosità’ espressiva.

Il lungo silenzio seguente si fa chiaro ove si abbia pure presente quell’immagine anonima e sterilmente eclettica della produzione pittorica trecentesca a Pistoia in cui il ‘Crocifisso’ di San Francesco non poteva trovare il suo luogo, immagine che ha avuto a lungo corso e che solo di recente è stata vivacemente contestata da Pier Paolo Donati, cui si deve il primo e decisivo tentativo di individuarvi invece un’originale cultura, sulla scia di quella vitale impostazione longhiana, sempre attenta a mettere in luce le varianti locali ed eterodosse di un Trecento in cui di giottesco ‘non vi fu che Giotto stesso’.9 D’altra parte l’asprezza gotica di quest’opera può essere intesa solo entro quell’acuta coscienza del carattere sperimentale e fin contraddittorio della stessa pittura fiorentina dei primi decenni del Trecento, quale si è venuta sempre più affermando grazie agli studi di Carlo Volpe e di Luciano Bellosi.10 L’individuazione di una corrente di fronda, intimamente avversa alla normalizzazione giottesca anche quando ne assimilava le nuove potenzialità illusive, la quale trovò il suo esponente più geniale nel ‘Maestro di Figline’ ma suscitò un dibattito anche più capillare e controverso, ci aiuta pure a comprendere, a Pistoia stessa e ancora nel primo Trecento, le ragioni culturali di un esito così sorprendente come quello del nostro ‘Crocifisso’ murale. In tale contesto fondamentale già lo inserisce, infatti, Andrea Bacchi in un recente intervento, in occasione del volume de La pittura in Italia dell’Electa dedicato alle origini, che finalmente rappresenta un primo entusiastico e pertinente commento dell’opera, letta in stretto rapporto proprio col ‘Maestro di Figline’, ma senza giungere a delle chiare conclusioni sul più stringente problema della sua paternità.11 La qual da tempo credo invece possa essere ben precisata nel nome di quel bizzarro ‘Maestro del 1310’ che dovette raccogliere le fila in Pistoia di un’autoctona vocazione artistica ed il cui profilo è ancora tanto incompleto, a paragone dell’intensa originalità delle sue rare opere e nonostante la fondamentale apertura prodotta dal Donati nel 1974.12 A chiarire la pertinenza del ‘Crocifisso’ di San Francesco, come il suo significato e la sua collocazione entro la vicenda di tale grande anonimo, credo possa ora bene soccorrere quell’adeguata illustrazione fotografica che un simile capolavoro comunque esige e che è finora mancata.13

La misura sperticata e longilinea del corpo di Cristo, che volutamente rasenta l’abnorme, ricorda l’allungamento tipico delle figure del dossale degli Umiliati, ora nella Pinacoteca civica pistoiese,14 dove sotto il largo e pesante ricasco dei panni pare di indovinare la gracilità ossuta delle membra.  L’astratta proporzione di un’umanità esilissima e come lievitante in altezza, piuttosto grandeggiante che convincentemente grandiosa, è d’altra parte uno di quei denominatori comuni al dossale e alla più antica ‘Maestà’ datata 1310,15 al di là delle pur notevoli diversità che distinguono queste due opere e che già vi segnalano una flessibile e controversa maturazione del maestro. Nel ‘Crocifisso’ murale e il segno di un ulteriore approdo, assottigliato da una finezza più gotica che pare riprendere dagli intenti di quel dipinto più antico, ma che d’altra parte, nella violenza dell’immaginazione patetica, richiama da vicino i risultati più impressionanti del dossale, l’idea stralunata di quei santi che diresti consumati dagli incubi, reduci da notti insonni!

Ma veniamo ad un’analisi più aderente e ravvicinata del testo. Ciò che più colpisce nella condotta pittorica è la combinazione così singolare di un segno affilato, di un’incisività quasi lancinante, e di un chiaroscuro intensissimo che si addensa soprattutto in episodi locali, con effetti ora brutali, come lungo i fianchi del corpo, ora più inteneriti, come attorno alle ciocche gonfie o sul profilo un po’ ossuto del volto. In maniera affatto analoga nel dossale degli Umiliati il pittore procede combinando il disegno graffiante e fin metallico coll’improvvisa intensità di ombre foltissime, quasi corrosive. Così l’ombra grave che colpisce sul lato l’addome di Cristo è densa ed astratta come quella che fa stagliare il lungo profilo del San Bernardo nel dossale.

 

Fig. 7) ‘Maestro del 1310’: ‘Crocifisso’, particolare del volto, Pistoia, San Francesco

 

Ed è di nuovo la stessa ombra che, nel particolare del volto (fig. 7), accarezza gli zigomi leggermente carnosi, come nella Vergine, e si annida nel taglio netto della bocca schiusa, la cui piega amara ritorna identica nella Vergine e nel San Giovanni Battista del polittico degli Umiliati (figg. 5-6).

 

Fig. 5,  ‘Maestro del 1310’: ‘Madonna col Bambino’ (part.). Fig. 6)  ‘San Giovanni Battista’ (part.). Pistoia, San Francesco.

 

Per la restituzione del nostro affresco al grande autore di quest’ultima tavola i più precisi termini di confronto sono infatti quelli offerti dal volto, come artigliato nella smorfia di dolore ma insieme soffuso d’acerbo languore ed in cui pare di sentire ancora il fortore d’un ultimo faticato respiro. Si vedano ancora il taglio crudo, come una ferita, degli occhi gonfi, il segno adunco del naso dalle narici profondamente incarnate (fig. 7), tipico un po’ di tutte le figure del dossale, o ancora il risalto saliente delle sopracciglia, definite da un segno arrotato che ritorna pari pari nel volto del San Giovanni Battista (fig. 6). La capigliatura che incornicia quest’ultimo, folta ed increspata al punto da velare l’orecchio, con sottile osservazione naturalistica, ricorda i capelli che ricadono abbondanti sulle tempie del Cristo, di sotto al cercine di spine che li preme. Analoga è la loro stessa consistenza, diresti come un po’ ispida e setolosa, per via di quel tessuto filamentoso di pennellate sottili che in entrambi i casi si ammorbidisce nelle ombre dense e affondanti. Il profilo vivacemente ondulato delle ciocche è analogo a quello che si leggeva nella testa del Battista, prima che cadesse il colore sovrapposto all’oro lungo i margini, come testimonia ancora la linea graffita sull’oro stesso. La stessa crudezza del disegno si ritrova pure nelle mani, dalle dita un po’ grosse e nodose come quelle del San Giovanni Evangelista. L’intero torace del Cristo, il cui profilo è pur cosi sfibrato e minutamente smosso, sembra celare un canone astratto e singolarmente rettangolato, in cui la piccola testa è come incassata e che ricorda le insolite proporzioni e le sagome appena scampanate dei santi del polittico di Pinacoteca.

 

Fig. 3) ‘Maestro del 1310’: ‘Crocifisso’ (part.). San Francesco

 

Fig. 2) Giovanni Pisano: ‘Sibilla’, particolare del pulpito, Pistoia, S. Andrea

 

Fig. 4) ‘Maestro del 1310’: ‘San Bernardo’, (part. del Polittico degli Umiliati’, Pistoia, Museo Civico

 

Ma anche il perizoma (fig. 3) può fornire delle indicazioni puntuali. Il suo ritmo più sottilmente sinuoso non deve nascondere, al di là dell’evoluzione stilistica legata probabilmente ad un rapporto col ‘Maestro di Figline’, la piena conformità a quanto si vede nel dossale (fig. 4), nei particolari morfologici dei panni violentemente tesi sul corpo e lungo la cui superficie tesa affiorano appena sottili pieghe tubolari. Identiche sono le vistose spezzature a V di queste ultime, identico il modo di risaltarle col chiaroscuro, od infine quel fitto di piegoline minute addensate là dove il perizoma è rincalzato contro l’inguine così come lungo il braccio sinistro di San Giovanni Evangelista, nel dossale.

Il movimento più fluente del perizoma interpreta un pensiero più gotico che già si ritrova in un’opera senz’altro connessa al dossale pistoiese, come hanno individuato Longhi e Bellosi, e forse appena seriore, l’affascinante tavoletta già Spiridon (fig. 8).

 

Fig. 8) ‘Maestro del 1310’: ‘Storie di Santa Margherita d’Antiochia (?)’. Ubicazione ignota. Aggiornamento: Andrea De Marchi segnala che la protagonista del convito è S. Irene, come è stato chiarito in seguito.

 

raffigurante le storie del martirio di una santa, probabilmente Santa Margherita d’Antiochia, e la sua glorificazione entro un inconsueto e spiritoso banchetto celeste.16 Qui va notata in particolar modo la donna che assiste alla ricomposizione della martire, sulla cui figura allampanata la veste pare scivolare leggera e ricca di marezzature, con un effetto finale di svuotamento della consistenza fisica che ci ricorda la smisurata lievitazione del nostro Cristo. Credo che anche una visione più distanziata e sintattica di questa figurazione, dell’idea che la sottende, del suo patetismo stralunato, della stessa incongruenza bizzarra di un’oreficeria ingrandita e proiettata a misura parietale, la renda comprensibile entro le intime motivazioni del ‘Maestro del 1310’, che fu forse il personaggio più violentemente eccentrico ed imprevedibile del primo Trecento toscano.17

Il ‘Crocifisso’ murale di San Francesco è tuttavia un’acquisizione che rende anche più complesso e problematico il profilo della sua vicenda. Il rapporto più calzante è infatti, come si è visto, col polittico degli Umiliati, una cui datazione sul 1320 è assai verosimile in ragione soprattutto della sensibile maturazione rispetto all’opera del 1310, ma anche per la soluzione notevolmente diversa della carpenteria, dove sono contraddittoriamente congiunte la sagoma timpanata del dossale duecentesco ed archeggiature trilobe archiacute di pieno gusto gotico, che nello stesso percorso di Simone Martini compaiono nei polittici orvietani e non ancora in quello dei Domenicani di Pisa del 1319. L’affresco dimostra però una maturazione ulteriore, visibile soprattutto nella vibrazione più sciolta dei profili, che suggerisce una datazione già addentrata nel terzo decennio e ci parla chiaramente di un nuovo e ravvicinato dialogo colla cultura del grande ‘Maestro di Figline’.

Tale tangenza, ben misurabile nel confronto col ‘Crocifisso’ di Santa Croce, va letta innanzi tutto in quella linea di contorno che si snoda sinuosa e continua lungo il corpo di Cristo o in quella ondulazione stupenda del perizoma che si insinua tra i due ginocchi. Ma diversamente dal ‘Maestro di Figline’, che pare compulsare brano a brano dei frammenti di sorprendente verità corporea, qui l’effetto finale è piuttosto quello un po’ astratto di uno svuotamento d’ogni consistenza, di una sagomatura piatta e bidimensionale della figura. D’altra parte il segno non è qui di un’acutezza così lincea come nel ‘Maestro di Figline’, è più stemperato, si rammorbidisce in quel chiaroscuro fumoso ed un po’ indistinto dove, ad esempio, non sai se è l’ombra o il pelame che si infoltisce. Fin più anticonformista è poi l’idea di questo Cristo stirato e quasi larvale, mentre il ‘Maestro di Figline’ tende sempre ad effetti stupendamente corposi e diversamente indugia in coaguli improvvisi di verità tutte fisiche, epidermiche, penetranti, che fanno il segreto del suo fascino maggiore.18

Il dialogo in cui si impegna il ‘Maestro del 1310’ è comunque di grande intelligenza ed è importante per noi anche perché ci testimonia, una volta di più, il radicamento fiorentino e toscano di un personaggio pur così atipico come il ‘Maestro di Figline’. Il fatto poi che tale dialogo si sviluppi con particolare intensità proprio ora credo vada spiegato nel quadro della nuova risonanza che sulla fine del secondo decennio, quando tra l’altro vi si formava Buonamico Buffalmacco, dovè avere il rientro a Firenze del ‘Maestro di Figline’, la cui precedente operosità assisiate ebbe comunque il suo rilievo e le sue ripercussioni.19 D’altra parte questa sterzata anche più violentemente gotica del ‘Maestro del 1310’, quale ci è documentata dall’affresco di San Francesco, contrasta polemicamente con quell’orientamento normalizzatore che già col quarto decennio si imporrà anche a Pistoia.20 Qui il mutamento non potrà essere più vistoso se solo si pensa come questo centro, che già si stava coltivando una propria difficile vocazione eccentrica, diverrà ben presto uno degli scenari privilegiati per la diffusione della cultura masesca.21

Nel perseguire la sua polemica gotica il ‘Maestro del 1310’ non solo si accosta al ‘Maestro di Figline’, ma riscopre e sviluppa più a fondo il grande precedente di Giovanni Pisano, che a Pistoia aveva lasciato nel 1301 uno dei suoi capolavori più alti, il pulpito della chiesa di Sant’Andrea (fig. 2).

 

Fig. 2) Giovanni Pisano: ‘Sibilla’, particolare del pulpito, Pistoia, S. Andrea

 

Fig. 3) ‘Maestro del 1310’: ‘Crocifisso’ (part.). San Francesco

 

Già nel dossale degli Umiliati l’asprezza energica con cui sono tagliate le figure può ricordare certi aspetti della plastica giovannea, mentre le acciaccature più affondanti attraverso cui è reso il volto un po’ ingrugnito del bambino, di più complessa maturità fisica rispetto a quello della pala ora ad Avignone, può aver preso a modello anche il modellato vibrante di certe teste dello scultore pisano. Ma è soprattutto nel nostro ‘Crocifisso’ murale che tale meditazione sembra recepire anche più intimamente l’animazione fremente che è sottesa alle figurazioni del pulpito, in particolare nella avventante pienezza gotica del perizoma (figg. 2-3). I gorghi complessi con cui questo ricade sul lato possono si essere stati ispirati direttamente dal grande ‘Crocifisso’ di Santa Croce del ‘Maestro di Figline’, opera cui in questo caso il ‘Maestro del 1310’ deve aver guardato esplicitamente come ad un autorevole modello consentaneo al proprio orientamento di cultura, ma è comunque interessante notare come egli sembri aver avuto in mente con certa puntualità alcune sorprendenti soluzioni di Giovanni Pisano, di effetto vivacemente franto. Certi brani del perizoma possono essere confrontati, ad esempio, con una Sibilla, sempre del pulpito di Sant’Andrea (figg. 2, 3), nel risalto, anche in profilo, delle nette spezzature a V del panneggio, nella forza con cui questo è poi tirato lungo le forme del corpo, sì che sulla superficie ben tesa affiorano appena lunghe piegoline tubolari.

Accanto a questo rapporto colle tendenze più gotiche della scultura contemporanea si spiega bene quell’attenzione ai prodotti dell’arte orafa cui abbiamo già accennato e che qui sembra motivare il curioso disegno acuminato della croce, sulle cui estremità sono sospesi i caratteristici bottoni e motivi trilobati, ma con effetto finale del tutto incongruo e bidimensionale.22 La singolarità di una simile scelta, unita all’alto grado qualitativo di quest’affresco, all’originalità della stesura pittorica e dell’interpretazione patetica, tenera e selvatica al tempo stesso sì da preludere persino a certi aspetti del gusto gotico internazionale, qualificano il ‘Crocifisso’ di San Francesco come un importante contributo alla nostra conoscenza di quella corrente di fronda antigiottesca, nel cuore stesso della Toscana, il cui significato non è certo riducibile all’entità quantitativamente minoritaria delle sue testimonianze. La vocazione sottilmente gotica del ‘Maestro del 1310’ è chiara se si risale alla stessa opera eponima, le cui lievi cadenze sono invece parzialmente frenate nel dossale degli Umiliati, a tutto vantaggio di una complicazione espressiva più introversa e di più tenere verità illusive, in particolare nelle carni contro il cui pallore cereo risaltano ombre più dense e fumose.

 

 

Fig. 9) ‘Maestro del 1310’: ‘Madonna col Bambino’. Già a Barcellona, (collezione Junyer)

 

Andrea De Marchi mi segnala questa foto recente del dipinto

 

Questo fu il senso non banale del tragitto seguito dall’anonimo pistoiese, nel cui solco e in una posizione intermedia tra i due dipinti,23 si può collocare questa inedita tavoletta (fig. 9) raffigurante la ‘Madonna col Bambino’, già appartenente alla collezione Junyer di Barcellona.24 Essa è purtroppo molto rovinata e presenta il fondo oro rifatto, ma è chiaro il legame colla Madonna del dossale nel volto di questa Vergine dagli occhi gonfi e stralunati, o ancora nel gesto pugnace del bambino che stringe a sé il velo avvoltogli sopra le spalle.

 

Fig. 10) ‘Maestro del 1310’: ‘Maestà’ (part.). Avignone. Musée du Petit Palais

 

D’altra parte quest’ultimo ricorda il bambino della pala di Avignone (fig. 10), cui rimanda la stessa smorfia curiosa formata dalla bocca della Madonna, che parrebbe piuttosto intenta a chinarsi su di uno strano animaletto, e soprattutto il risalto tagliente formato dalla canna nasale, uno stilema arcaico che a Pistoia verrà superato in favore di una più sensibile resa dei carnati.

A capo della vicenda dell’anonimo il valore della ‘Maestà’ datata 1310 è dunque quello di uno straordinario termometro della complessità culturale di quel preciso momento, ancora acerbo e sperimentale, e della stessa situazione pistoiese, eccentrica quanto si vuole ma non indistinta, come ha bene rivendicato il Donati.25 Le nostalgie duecentesche, evidenti nelle proporzioni gerarchiche, nell’alone dilatato del nimbo intorno alla testa della Vergine, in quella grandiosità un po’ spettrale affine, ora, al ‘Maestro di Figline’ più amico, quello del ‘San Giovanni Battista’ Massari,26 sono combinate coll’ ‘interferenza giottesca’ endemica del primo decennio27 e soprattutto cogli accenti intensamente gotici, nel movimento lentamente oscillante del lungo manto, nell’esilità smagrita delle figure o ancora nel garbo squisito delle mani incrociate ed accompagnate alle spalle, che ci rendono preziosa la data 1310. Nella pala avignonese le coordinate culturali dell’anonimo sono quanto mai complesse e vanno dalla Firenze di Lippo di Benivieni alla Pisa del ‘Maestro di San Torpè’, non senza singolari analogie con alcuni eccentrici ducceschi, come il ‘Maestro dell’affresco di Casole’, e non senza rapporti, forse, colla precoce diffusione di simpatie acutamente goticheggianti in Emilia.28 Ma a Pistoia stessa una provocazione importante per la formazione del ‘Maestro del 1310’ dovè essere quella svolta dal misterioso autore degli affreschi colle ‘Storie della Passione’ in San Giovanni Fuorcivitas, su cui ha attirato l’attenzione Pier Paolo Donati in maniera molto sottile, anche se poi è più difficile condividere il suo tentativo di riconoscervi gli inizi dello stesso ‘Maestro del 1310’.29 L’innesto su di una formazione cimabuesca, probabilmente legata a Manfredino (e di cui non è traccia, vale la pena di notarlo, nell’antica ‘Maestà’ del Petit-Palais), di timidi ma curiosi stilemi oltremontani, ad esempio nel taglio affilato degli occhi o nel profilo risentito e continuo del naso e del labbro superiore, ci consente di precisare, una volta tanto, un caso di quelle influenze ‘romanze’ più volte invocate come fonti per le diversioni anti-giottesche del primo Trecento.30 Il segno pungente, la vivezza delicatamente occhieggiante dei volti, le intemperanze gotiche celate nelle pieghe di una figurazione pur così troneggiante, come quella della ‘Maestà’ del 1310, non furono allora senza rapporto coll’irregolare presenza di quel frescante che il Longhi informalmente chiamava ‘Anonimo romanzo’. 31 Alla luce di questo bizzarro antefatto si spiega forse meglio la stessa singolarità di quella specifica civiltà pittorica pistoiese,32 rilegata da un breve ma intenso filo rosso e di cui il ‘Crocifisso’ murale di San Francesco è uno dei frutti più maturi e seducenti che il tempo ci abbia consegnato.

 

Note

1) La superficie affrescata attualmente superstite misura, da un estremo all’altro della croce, cm. 475 di altezza x cm. 550 di larghezza.

2) A. Venturi, Storia dell’arte italiana, V, Milano 1907, p. 49

3) Vedi infatti le riserve espresse da R. Longhi, La Mostra del Trecento bolognese, in ‘Paragone’. 1, 1950, n. 5, p. 12.

4) A. Venturi, op cit. fig. 398.

5) Questi due affreschi, finora inediti, sono databili all’ultimo quarto del Trecento, in dipendenza ormai dall’arte del Cristiani, e possono forse spettare agli inizi di Nanni di Iacopo. A loro è infatti molto prossimo l’affresco colla ‘Madonna dell’umiltà e quattro angeli’ che si trova nel Palazzo comunale di Pistoia, attribuito spesso ma non convincentemente al bolognese Lippo di Dalmasio (A. Venturi, op. cit., p. 948, ma pure M. Boskovits, La pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento, Firenze 1975, pp. 151-2 ed il cui accostamento a Nanni di Jacopo mi è stato invece suggerito da Luciano Bellosi.

6) Molti casi si potrebbero citare, in particolare nell’area senese (Siena, San Francesco, ad opera di Lippo Vanni; Massa Marittima, Duomo; Monticiano, Sant’Agostino; Montepulciano, Sant’Agnese; per cui vedi P.P. Donati, Un finto polittico ad affresco a Montepulciano, in ‘Paragone’, XXX, 1979. nn. 349-51, pp. 25-9. Non ne mancano tuttavia anche in altre aree (ad esempio nel Casentino il polittico dipinto dal giovane Taddeo Gaddi nella cappella del Castello di Poppi), pure in quella fiorentina, dove un curioso esempio di pala d’altare interamente finta in affresco è quello di fine Trecento in San Bartolomeo in via Cava, presso Prato, recentemente citato da L. Bellosi. Francesco di Michele. Il Maestro di San Martino a Mensola, in ‘Paragone’, XXXVI, 1985, nn. 419-21-3, p. 56.

7) Un caso analogo, e coevo, è quello dell’affresco raffigurante ‘Sant’Onofrio’, nella chiesa fiorentina di Sant’Ambrogio, attribuito al ‘Maestro di Figline’ da M. Meiss. Una pittura del Maestro della Pietà Fogg, in ‘Bollettino d’arte’, 1966, pp. 149-50.

8) A. Venturi, op.cit., p.492. Secondo il Vasari, Puccio Capanna ‘fece a fresco la cappella maggiore della chiesa di San Francesco e la cappella di San Lodovico’ (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Firenze 1568, ed. a cura di P. Della Pergola, L. Grassi, G. Previtali), I, Milano 1962, p. 326. La corretta definizione del ciclo francescano, come è noto, spetta a R. Longhi (La Mostra… cit.. p. 12) il quale lo riferì al grande pittore bolognese che va sotto il nome ipotetico di Dalmasio degli Scannabecchi. La lunetta colla ‘Madonna e il bambino’ è stata correttamente restituita a Giovanni di Bartolomeo Cristiani da K. Offner (A ray of light on Giovanni del Biondo and Niccolò di Tommaso, in ‘Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz’, VII, 1956, p. 192). Il Venturi cita pure, in relazione a queste opere già così eterogenee, la ‘Croce’ dipinta n.436 della Galleria dell’Accademia di Firenze, del ‘Maestro del Crocifisso Corsi’.

9) P.P. Donati, Per la pittura pistoiese del Trecento – I, Il Maestro del 1310, in ‘Paragone’, XXV, n. 295, pp.3-26. La citazione è da R. Longhi, Frammenti di Giusto da Padova, in ‘Pinacotheca’, 1928, p. 142.

10) Valore di fondamentale ‘apertura’ critica assumono infatti gli interventi di C. Volpe, Frammenti di Lippo di Benivieni, in ‘Paragone’, XXIII, n.267, 1972, pp.3-13, e L. Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974 (in particolare il capitolo dedicato a Gli inizi fiorentini di Buffalmacco e i giotteschi ‘dissidenti’, pp. 73-82). La singolarità di diversi dipinti prodotti nella Firenze di primo Trecento ha fatto sì che essi non siano sempre riconosciuti come tali o vengano ricoverati sotto altre etichette. Emblematico è il caso, peraltro complicato da un astuto restauro, del trittico della Brooks Memorial Art Gallery di Memphis catalogato come di un seguace di Duccio ed in cui invece il Bellosi ha riconosciuto un’opera del ‘Maestro di San Gaggio’. Analogamente le inflessioni gotiche presenti nella piccola ‘Incoronazione della Vergine’ del Museo San Carlos di Valencia hanno indotto M. Meiss (Italian Style in Catalonia and a thirteenth century catalan workshop, in ‘The Journal of the Walters Art Gallery’, IV, 1941, pp.61-2) a ritenerla opera di un ‘late follower of Duccio” (B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932, p.140, la attribuiva invece alla scuola del Cavallini), mentre si tratta di un dipinto sicuramente fiorentino, vicino alle opere più antiche di Lippo di Benivieni, della sua cerchia, come il trittico Czartoryski, la pala recentemente resa nota dal Todini (F. Todini, Un dossale fiorentino del primo Trecento, in Paragone, XXXV, nn.419-21-3, 1985, pp.22-5) o la piccola ‘Madonna’ dell’Art Museum di Worcester (e anche più precisamente connesso, secondo quanto mi suggerisce ora il Bellosi, alla pala di San Pietro, in San Simone e Giuda a Firenze, datata 1307: ma un giudizio più preciso si potrà esprimere dopo il restauro attualmente in corso). O ancora, è probabilmente fiorentino, da studiarsi in prossimità del ‘Maestro di Vicchio a Rimaggio’, il trittico della Yale University Art Gallery di New Haven (1871.9), raffigurante ‘Storie della vita di Cristo e del Precursore”, normalmente ritenuto riminese (Sirèn, Offner) o umbro (Garrison), dove la narrazione coloritissima e lo stesso percorso irrazionale del seguito iconografico potrebbero a prima vista, ma a torto, sorprendere per un fiorentino (l’opera è già nata accostata da Ch. Seymour Jr., Early Italian Painting in the Yale University Art Gallery, New Haven-London 1970, p. 106, alla tavola Lehman del ‘Maestro del Biadaiolo’).

11)  A. Bacchi, Pittura del Duecento e del Trecento nel Pistoiese, in La pittura in Italia. Le Origini, Milano 1985, pp. 277-8. L’amico Bacchi, con cui avevo discusso l’ipotesi attributiva in favore del ‘Maestro del 1310’, ha preferito lasciare l’affresco in un limbo problematico, adombrando tuttavia che esso possa riferirsi ad un’estrema, sinora ignota, attività dello stesso ‘Maestro di Figline’. La maturità delle nostre conoscenze su quest’ultimo, che è ormai giustamente riconosciuto come uno dei massimi comprimari del Trecento italiano, mi pare non consenta simili oscillazioni attributive. Non così assestata è invece la fisionomia critica del ‘Maestro del 1310′, fondata sostanzialmente su tre soli dipinti in tavola ed un affresco, differentemente collocati entro la sua ancora problematica carriera. Perciò ho l’impressione che il Bacchi muova da un’immagine un po’ riduttiva del ‘Maestro del 1310’ nel momento in cui gli preclude, per principio, un accrescimento in senso più gotico, quale è quello attestato dal ‘Crocifisso’ murale in San Francesco, i cui stretti rapporti morfologici e stilistici con le rare opere dell’anonimo esigono comunque spiegazioni meno evasive.

12) P.P. Donati, Per la pittura…. cit.

13) Le riprese fotografiche sono opera del fotografo pistoiese Aurelio Amendola.

14) Per ogni ragguaglio tecnico e storico relativo a questo dossale, la cui ubicazione più antica era appunto quella del Convento degli Umiliati in Pistoia, si veda la scheda a cura di Michele Cordaro in Museo Civico di Pistoia. Catalogo delle collezioni, Firenze 1982, pp. 97-8, e dove peraltro è difficilmente condivisibile la datazione ‘qualche anno dopo l’inizio del Trecento’, prima della stessa  ‘Maestà’ datata 1310.

15) Già nel museo di Angers e ora sistemata nella collezione Campana di Avignone (per ogni notizia vedi M. Laclotte-E. Mognetti, Avignon, Musée du Petit-Palais. Peinture Italienne. Paris, 1977, cat. n.124).

16) Vedi P.P. Donati, Per la pittura…, cit., p. 23. L’identificazione della santa raffigurata con Santa Margherita d’Antiochia (già avanzata da R. Longhi, La pittura umbra della prima metà del Trecento, a cura di M. Gregori, in ‘Paragone’, XXIV, 197.3, nn. 281-3, p. 35) è suggerita principalmente dalla scena con la giovane martire incarcerata che trionfa sul drago, ma pure dalla bianca colomba col ramo di ulivo, che le reca conforto, mentre i commensali del banchetto celeste potrebbero rappresentare simbolicamente i cinquemila convertiti che vennero poi decapitati per ordine del prefetto.

17) A paragone del linguaggio intensamente espressionista e fin paradossale del ‘Maestro del 1310’, appare come troppo normalizzata anche la misteriosa ‘Crocifissione’ della collezione Kress a Coral Gables, riferitagli con dubbio da L. Bellosi (Buffalmacco.., cit., p. 36 e n. 37), il quale però, secondo quanto mi comunica cortesemente, si è ricreduto su tale ipotesi.

18) Per un’acuta definizione critica della pittura del ‘Maestro di Figline’ è quanto mai opportuno il richiamo al commento offerto da Carlo Volpe (Ristudiando il Maestro di Figline, in ‘Paragone’. XXIV, 1973, n. 277, p.9): ‘Giacché, se leggi si nascondono nella realtà del mondo, esse sono, per il Maestro di Figline, capziosamente riposte fra le sue intime pieghe, nei risvolti dell’ombra, nelle crepe di una smorfia mimica, nell’infinita mutevolezza della pelle delle cose, dove l’occhio sensibile che osserva distingue e descrive suggerendo la polpa e la sostanza che dentro si cela, o il caldo e l’oscuro pulsare che vi trascorre’.

19) Anche se la polemica in pro dell’identificazione del ‘Maestro di Figline’ coll’assisiano Giovanni da Bonino sembra destinata a rimanere senza conseguenze, mentre la provenienza del pannello Fogg dalla collezione Ranghiasci di Gubbio non ci assicura certo di una sua originaria destinazione umbra (come ben rilevato dal Volpe in Early Italian Paintings and Works of Art 1300-1480, catalogo della mostra presso Matthiesen Fine Art Ltd. London 1983, p. 23), rimane il fatto che il suo soggiorno ad Assisi, per cui fondamentale punto di riferimento cronologico rimangono le vetrate della cappella di San Martino, databili fra il 1312 e il 1317 (cfr. L. Bellosi, in Il Maestro di Figline, catalogo della mostra tenutasi a Figline Valdarno, Firenze 1980, p.14), ebbe comunque un suo significato. Che non si sia trattato di un episodio fugace ce lo fanno supporre, al di là del numero delle testimonianze sopravvissute in loco, da una parte l’importanza del dialogo intrecciato col Simone Martini della cappella Partino da Montefiore (per cui fondamentali sono le recenti osservazioni di Giovanni Previtali nell’introduzione al catalogo della mostra Simone Martini e ‘chompagni’, Firenze 1985, p.22), dall’altra la presenza di riflessi del suo singolare linguaggio in terra umbra (mi riferisco ad esempio al notevolissimo dittico n.85 della Galleria Nazionale dell’Umbria in Perugia, dipinto su pergamena, ma più in generale, come mi fa notare il Bellosi, alla particolare intonazione cromatica delle opere del ‘Maestro del dittico Poldi-Pezzoli’, assortita di terre, di verdi marci, di bianchi avorio, di rosa dissugati). Ciò non muta minimamente, ben inteso, i termini affatto fiorentini del problema ‘Maestro di Figline’ e della sua prima radice.

20) Il mutamento graduale della cultura pittorica pistoiese nel secondo quarto del secolo è stato bene messo in luce da Pier Paolo Donati nello studio dedicato alla ricostruzione del suo ‘Maestro del 1336’ (P.P. Donati, Per la pittura pistoiese del Trecento – II, Il Maestro del 1336, in ‘Paragone’, XXVII, 1976, n.321, pp. 3-15). A questo maestro che, insieme ad opere come la tavola di Masiano, ci legittima a parlare di una vera e propria scuola pistoiese configuratasi intorno al ‘Maestro del 1336’, andranno attribuiti pure il volto della ‘Vergine annunciata’, affrescato nel retro facciata della chiesa della SS. Annunciata a Pistoia ed incorniciato dalla ridipintura cinquecentesca di Sebastiano Vini, perfettamente intermedio tra il polittico del museo di Empoli e quello già a Popiglio, ed una tavola assai guasta colla ‘Madonna e il bambino’, che nell’aprile 1926 era alla vendita della collezione Banti di Firenze. Le persistenti vestigia nel ‘Maestro del 1336’ dell’acerbo espressionismo del maggiore ‘Maestro del 1310’ sono tali da segnare, come sostenuto dal Donati, una nella linea di demarcazione rispetto alle opere del ‘Francesco’ che nel 1363 esegue il polittico già a Pisa e ora in collezione Cini (verso una unificazione dei due gruppi si orientava invece M. Boskovits, in Pittura umbra e marchigiana fra gotico e rinascimento, Firenze 1973, p. 40, n. 108).

21)  A Pistoia lavora, nel quinto decennio, il notevole Bonaccorso di Cino riscoperto dagli studi del Procacci e del Meiss (e per cui vedi M. Meiss, Notable disturbances in the classification of Tuscan Trecento paintings, in ‘The Burlington Magazine’, aprile 1971, pp. 178-87), pittore che si formò probabilmente nella stessa bottega di Maso di Banco e di cui rimangono in Pistoia frammenti della decorazione della cappella di San Jacopo nel Duomo (1347) ed altri affreschi nella navata di San Francesco. Negli stessi anni la presenza più significativa è quella dello ‘Pseudo-Dalmasio’, pittore bolognese che proprio a Pistoia, negli affreschi del coro di San Francesco (1343), consegue il massimo suo adeguamento agli ideali maseschi di larga zonatura formale (estremo punto di arrivo del suo itinerario, come è da credere  soprattutto se si accoglie l’importante proposta di L. Bellosi, Moda e cronologia. B) Per la pittura di primo Trecento, in ‘Prospettiva’, 1977, n. 11, pp. 23-4, di riferire gli affreschi colle storie di San Gregorio, in Santa Maria Novella, dalla narrazione più franta e dalle ombre più crude e fumose, al tempo in cui la cappella passò al patronato dei Bardi, nel 1335; se è corretta tale interpretazione è probabile che le opere più intensamente bolognesi, come la ‘Deposizione’ già Visconti di Modrone o la ‘Crocifissione’ Acton, si collochino ancora prima, agli inizi di una carriera che molto difficilmente sarà quella di Dalmasio degli Scannabecchi, documentato a Bologna dal 1342 al 1373). Poco oltre la terribile soglia della Peste Nera la celebre indagine condotta dai frati di San Giovanni Fuorcivitas ci testimonia come la committenza pistoiese fosse ormai decisamente orientata verso artisti forestieri (la datazione di tale documento senz’altro prima del 1353, ma dopo il 1348 e non già al 1347, come si ripete spesso, è già stata sostenuta da A. Conti, Appunti pistoiesi, in ‘Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa’, 1971, I, p. 110 n. 1. Nonostante l’impoverimento della cultura locale, in seguito alla definitiva perdita dell’autonomia politica cittadina nel 1331, Pistoia rimase un interessante carrefour sulla via per l’Emilia, verso cui è in parte orientato l’interessante autore dell’affresco in Palazzo comunale datato 1360, erroneamente attribuito a Niccolò di Tommaso. Un’opera come questa sembra già rivolta in direzione della nascente cultura di Giovanni di Bartolomeo Cristiani, prestigioso emblema della timida autonomia pistoiese nella seconda metà del Trecento.

22)  L’attenzione spiccata alle peculiarità delle tecniche orafe, come più in generale la polemica gotica, non sono certo all’inizio del Trecento appannaggio della sola Siena. Così quanto appena rilevato a proposito dell’affresco del ‘Maestro del 1310’ può porsi in parallelo colla vocazione ‘orafa’ del ‘Maestro di Figline’, su cui si è soffermato in particolare L. Bellosi (Buffalmacco… cit, p. 102, n.46, e ‘Il Maestro di Figline… cit., 14). Un interessante contributo a tale lettura è stato infine arrecato dal recente restauro della pala figlinese il cui trono è concepito ‘come un prezioso oggetto d’avorio, smisuratamente ingrandito’ (Bellosi), dove è stata riportata in luce l’originale decorazione della cornice, le cui intense campiture di verdone, turchese e rosso vinato sono risaltate da leggeri filamenti luminosi, sì da fingervi l’effetto di invetriature traslucide (vedi il catalogo della mostra Capolavori a Figline. Cinque anni di Restauri, Firenze 1985).

23) Per chi nutrisse ancora delle perplessità sull’identità dell’autore della ‘Maestà’ di Avignone e del dossale pistoiese va ricordato anche il puntuale riscontro offerto da minute osservazioni morfologiche come quelle di M. Meiss (Primitifs italiens à l’Orangerie, in ‘La Revue des Arts’, VI, 1956, n. 3, p. 146) sulla decorazione dei nimbi e di P.P. Donati Per la pittura..-1 … cit., p. 14) sui singolari riccioli ‘bucati’. In favore della provenienza pistoiese della ‘Maestà’ del 1310 depone in fondo lo stesso affresco raffigurante la ‘Madonna e sei santi’, nel capitolo di San Domenico, riesumato dal Donati (op. cit. pp. 20-1): credo che esso vada datato assai presto, tanto vistosi vi sono i segni della più antica ‘interferenza giottesca’ nel semplice trono come nelle incorniciature a motivi cosmateschi, e mi pare che le affinità più stringenti, nonostante le sue condizioni danneggiate, siano ravvisabili proprio colla ‘Maestà’ già ad Angers (si confrontino ad esempio i due bambini, un po’ corpulenti, o il volto della Vergine, similissimo alle teste di alcuni angeli della pala, più sorridente e quasi paesano rispetto alle maschere capziose cui ci abituerà in seguito il ‘Maestro del 1310’.

24) Purtroppo non mi è stato possibile rintracciare l’opera, che conosco solo dalla foto dell’Arxiu Mas di Barcellona (neg. n. 34315).

25) Per questo, come già sottolineava il Donati, rimane di fondamentale importanza l’alta e provocatoria valutazione di quest’opera, ‘che non scade accanto a Duccio e a Cimabue’, da parte di Roberto Longhi (La pittura umbracit., p.35, che pure la collocava erroneamente in area umbra, di contro al giudizio di Millard Meiss (Primitifs…cit., p. 146) per cui ‘il est néanmoins difficile de s’enthousiasmer vivement pour sa qualité’.

26) Per la datazione alta di quest’opera, ora ospitata nella Pinacoteca nazionale di Ferrara, seguo la posizione di Carlo Volpe (Ristudiando… cit., pp.8-10) che la collocava entro il primo decennio del secolo, sulla base anche del confronto colla pala francescana che Giotto dipinse per Pisa, nella definizione elementare delle fronde degli alberi e delle rocce (così diversamente modulate e pittoriche nella ‘Pietà’ Foggi, oltre che delle inequivocabili indicazioni fornite dalla fabbrica del nimbo, strettamente analoga a quella delle più antiche opere fiorentine di Giotto, la ‘Madonna’ di San Giorgio alla Costa e il polittico di Badìa (ma in contrario vedi ora A. Conti, Il ‘Maestro di Figline’: 1980-1985 in Capolavori.. cit., Firenze 1985, pp.60-1).

27) Ricorro alla definizione impiegata da Giovanni Previtali (Il Maestro di San Brizio e le origini della scuola orvietana di pittura, in Scritti di Storia dell’Arte in onore di Ugo Procacci, Milano 1977, I, pp. 108-9) a proposito di una fenomenologia che ha valore generale e di cui rimangono numerose testimonianze variamente datate proprio nel primo decennio, dal 1302 al 1310, interessando i più diversi centri, da Lucca ad Urbania, da Cesi a San Gimignano, da Parma a Pistoia, appunto. Sul significato della rapida e precoce fortuna del primo linguaggio giottesco assisiate è ritornato opportunamente Luciano Bellosi nel capitolo Centralità di Assisi del suo recente libro La pecora di Giotto (Torino 1985, pp. 128-38).

28) Il ‘Maestro dell’affresco di Casole’, alias ‘Pseudo Maestro Gilio’, è già richiamato dal Donati (Per la pittura… – I, cit., p. 15), mentre gli altri riferimenti a Lippo di Benivieni e al ‘Maestro di San Torpè’ sono suggeriti dallo stesso Bacchi (Pittura… cit., pp. 275-6). Per l’Emilia, verso cui Pistoia costituisce un osservatorio geograficamente privilegiato, si allude al ‘Maestro  del vescovo Gerardo Bianchi’, a Parma, insieme proto-giottesco e quasi francesizzante, ma ancor prima al singolare autore del dittico ora reintegrato da F. Zeri (Un’insolita questione filologica, in ‘Paragone’, XXXVI, 1985, n. 429, pp. 93-6) dove la fluenza gotica dei panneggi sembra avvalorare il riferimento bolognese che era stato avanzato dal Volpe.

29)  P.P. Donati. Per la pittura… op. cit., pp. 12-4. Tale proposta sembra sostanzialmente condivisa da A. Bacchi, Pittura.., cit., pp. 274-5. Mi chiedo se allo stesso ambito problematico non possa appartenere la curiosa ‘Madonna col bambino’ del Museo di Oberlin (n. 45.9, attribuita a pittore senese del 1300 ca.) purtroppo gravemente svelata, ma dove l’insolito goticismo di una linea acuminata e nervosa (lungo il profilo del manto, nel taglio affilato degli occhi, ecc.). si innesta su di una matrice cimabuesca (già A. Conti. La miniatura bolognese. Scuole e botteghe 1270- 1340, Bologna 1981, p. 53 n. 39, si era provato ad accostare agli affreschi pistoiesi un’opera di difficile definizione, ma assai svisata dai restauri, come la ‘Maestà’ Kress proveniente da San Quirico d’Orcia.)

30) C. Volpe, Frammenti… cit. pp. 7 e 10; L. Bellosi, Buffalmacco… cit., pp. 77-8.

31) Dicitura impiegata dal Longhi nella classificazione della sua fototeca (cfr. A Conti, La miniatura… cit., p.53).

32) Sull’importanza e sulla precocità dello sviluppo di specificità linguistiche cittadine vedi quanto scrive G. Previtali (Il Maestro… cit., p. 108), il quale rileva come gli studi sulla pittura trecentesca tendano ‘sempre più ad arretrare al periodo a cavallo fra i due secoli la formazione delle cosiddette ‘scuole locali’.

 

Copertina, Crocifisso, foto di Francesco Bini (Sailko)

 

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