La Sistemazione della Pietà di S. Maria Del Fiore e il metodo creativo di Michelangelo

La Sistemazione della Pietà di S. Maria Del Fiore

e il metodo creativo di Michelangelo

di PAVEL PAVLINOV

Da: Arte Lombarda, vol. 10, 1965, pp. 115–142

(Trascrizione di Andreina Mancini e Paolo Pianigiani)

Ricordo come, molti anni fa (nel 1924), trovandomi nel Museo delle Arti Figurative di Mosca, stavo davanti alla Pietà di Michelangelo con un grande desiderio di spiegarmi la composizione di quest’opera. E ricordo anche che allora provai un sentimento del tutto insolito e straordinariamente spiacevole dovuto al fatto che non riuscivo a comprenderne il significato artistico: era come guardare il gruppo attraverso una grata e vedere solamente i singoli pezzi della scultura. Ricordo che non osservai neppure che la figura del Cristo manca della gamba sinistra, ciò perché probabilmente, l’assenza di una logica complessiva non suggeriva la ricerca della parte mancante (fig. I).

Poi la tappa seguente della mia meditazione sull’opera e del desiderio intenso di uscire da quello stato penoso fu la scoperta e poi la chiara sensazione dell’organizzazione, tipica in Michelangelo, del piano frontale iniziale dell’opera (fig. 2), che mi sfuggiva a sinistra, quando mi allontanavo in profondità. Eppure istintivamente sentivo la necessità di fare due passi a sinistra, per stare davanti a questo piano iniziale. Qui soltanto, infine, vedevo l’opera in tutta la sua armonica composizione (fig. 3).

Allora mi divenne chiaro che mi si mostrava la Pietà in modo errato, e che la scultura mi si manifestava veramente soltanto grazie alla mia supposizione di aver trovato l’esatto punto di osservazione, anche se il piedistallo di legno si trovava in corrispondenza con la forma del plinto del gruppo e, sotto quest’aspetto l’oggetto era situato giustamente. In seguito questa interessantissima osservazione fu oggetto di conversazione con i miei allievi durante le abituali visite al Museo.

Entro questi limiti essa si mantenne fino all’autunno del 1944, quando in occasione della riesposizione, manifestai la mia opinione ai collaboratori del Museo e proposi di correggere l’errore della sistemazione. La scultura a tutto tondo generalmente, a differenza del bassorilievo. offre un certo arco di osservazione, che può giungere sino al limite di 360°, ciò che le conferisce, in certo senso, maggiori possibilità, rispetto al bassorilievo e, naturalmente, alla pittura, di manifestare tanto in un oggetto isolato, quanto in un’opera più complessa i diversi aspetti compositivi, a seconda dei punti di vista; ma, d’altra parte, l’arco di osservazione nella stessa scultura a tutto tondo può essere a volte anche estremamente limitato. Sotto questo aspetto la scultura di Michelangelo è sempre costruita in modo molto preciso e caratterizzato dal fatto che ha in ogni caso un certo punto di osservazione “principale” che deriva dall’impostazione abituale della sua struttura compositiva, e spesso questo punto di osservazione principale è anche l’unico. Naturalmente ciascuno comprende che il giro attorno alla scultura, in un modo o nell’altro, rivelerà i diversi aspetti dell’opera, ma Michelangelo nel suo processo creativo non sempre tenne conto del fatto che negli altri aspetti, oltre che nel principale, c’è un’equivalente possibilità compositiva. La Pietà fiorentina sotto questo aspetto occupa nella critica d’arte una posizione indecisa, che si manifesta nel fatto che quello che è considerato da alcuni famosi studiosi di Michelangelo, come Tode, Grimm, Makowski, Delogu e altri, il punto di osservazione principale dell’opera, non soddisfa un osservatore più attento, e lascia incerto anche qualcuno tra gli autori citati.

In questo articolo noi esponiamo le nostre considerazioni sulle probabili circostanze che accompagnarono il collocamento del gruppo nel 1722 nel duomo di Firenze, dove esso divenne per la prima volta accessibile ad una visione pubblica: considerazioni che possono, secondo la nostra convinzione, sciogliere le perplessità che circondano quest’opera eccezionale, portare in piena luce il pensiero compositivo dell’autore e collocare l’opera, secondo il valore suo, nel posto che le compete tra le più grandi opere della cultura mondiale. Parallelamente a ciò, come prova delle posizioni da noi avanzate, ci è sembrato necessario illuminare anche alcuni procedimenti compositivi generali di Michelangelo.

Capitolo I

Nel 1550 il settantacinquenne Michelangelo incominciò a scolpire in marmo un gruppo di quattro figure, del quale Vasari nelle sue “Vite de’ più eccellenti pittori. scultori e architettori” dice:

“… Michelangelo… si mise attorno ad un pezzo di marmo per cavarvi dentro quattro figure tonde maggiori che ‘l vivo, facendo in quello Cristo morto… Era questo Cristo, come deposto di croce, sostenuto dalla Nostra Donna, entrandogli sotto ed ajutando con atto di forza Nicodemo fermato in piede e da una delle Marie che lo ajuta, vedendo mancata la forza nella Madre, che vinta dal dolore non può reggere. Né si può vedere corpo morto simile a quel di Cristo, che, cascando con le membra abbandonate. fa attitudini tutte differenti, non solo degli altri suoi, ma di quali se ne fecion mai: opera faticosa, rara in un sasso, e veramente divina; e questa, come si dirà di sotto, restò imperfetta, ed ebbe molte disgrazie; ancora ch’egli avesse avuto animo che la dovesse servire per la sepultura di lui, a pie’ di quello altare, dove e’ pensava di porla… Il Vasari, mandato da Giulio II a un’ora di notte per un disegno a casa di Michelagnolo, trovò che lavorava sopra la Pietà di marmo che e’ ruppe. Conosciutolo Michelagnolo al picchiare della porta si levò dal lavoro e prese in mano una lucerna dal manico: dove, esposto il Vasari quel che voleva, mandò per il disegno Urbino di sopra, e entrati in altro ragionamento, voltò intanto gli occhi il Vasari a guardare una gamba del Cristo sopra la quale lavorava e cercava di imitarla; e per ovviare che il Vasari non la vedesse si lasciò cascare la lucerna di mano, e, rimasti al buio, chiamò Urbino che recasse un lume; ed intanto uscito fuori del tavolato dove ell’era, disse: lo sono tanto vecchio, che spesso la morte mi tira per la cappa perché io vada seco, e questa mia persona cascherà un dì come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita….

Lavorava Michelagnolo, quasi ogni giorno per suo passatempo, intorno a quella Pietà che s’è già ragionato, con le quattro figure; la quale egli spezzò in questo tempo per queste cagioni perchè quel sasso aveva molti smerigli; ed era duro, e faceva spesso fuoco nello scalpello, o fusse pure che il giudizio di quello uomo fusse tanto grande, che non si contentava mai di cosa che e’ facesse… In questo tempo Tiberio Calcagni, scultore fiorentino, era divenuto molto amico di Michelagnolo per mezzo di Francesco Bandini e di M. Donato Giannotti; ed essendo un giorno in casa di Michelagnolo, dove era rotta questa Pietà, dopo lungo ragionamento gli dimandò perchè cagione l’avesse rotta, e guasto tante meravigliose fatiche; rispose, esserne cagione la importunità di Urbino suo servidore, che ogni dì lo sollecitava a finirla; e che, tra l’altre cose, gli venne levato un pezzo d’un gomito della Madonna, e che prima ancora se l’era recata in odio e ci aveva avuto molte disgrazie attorno di un pelo che v’era, dove scappatogli la pazienza la ruppe, e la voleva rompere affatto, se Antonio suo servitore non se gli fusse raccomandato che così com’era gliene donasse. Dove Tiberio, inteso ciò, parlò al Bandino che desiderava di avere qualcosa di mano sua; ed il Bandino operò che Tiberio promettesse a Antonio scudi dugento d’oro. e pregò Michelagnolo che se volesse che con suo ajuto di modelli Tiberio la finisse per il Bandino, saria cagione che quelle fatiche non sarebbono gettate invano; e ne fu contento Michelagnolo; là dove ne fece loro un presente. Questa fu portata via subito; e rimessa insieme poi da Tiberio, e rifatto non so che pezzi; ma rimase imperfetta per la morte del Bandino, di Michelagnolo e di Tiberio. Truovasi al presente nelle mani di Pierantonio Bandini. figliuolo di Francesco, alla sua vigna di Montecavallo. E tornando a Michelagnolo, fu necessario trovar qualcosa poi di marmo, perchè e’ potesse ogni giorno passar tempo scarpellando; e fu messo un altro pezzo di marmo dove era stato già abbozzato un’altra Pietà, varia da quella, molto minore.

La seconda edizione del libro del Vasari, da cui citiamo questi brani sulla Pietà, vide la luce nel 1568.

Un altro biografo di Michelangelo, il suo allievo Ascanio Condivi, in un libro pubblicato nel 1553 dice:

“Ora ha per le mani una opera di marmo, qual egli ha a suo diletto, come quello che pieno di concetti, è forza che ogni giorno ne partorisca qualcuno. Quest’è un gruppo di quattro figure più che al naturale, cioè un Cristo deposto di croce. sostenuto così morto dalla sua madre, la quale si vede sottentrare a quel corpo col petto, colle braccia e col ginocchio in mirabil atto: ma però aiutata di sopra da Nicodemo, che, ritto e fermo in sulle gambe lo sollieva sotto le braccia mostrando forza gagliarda, e da una delle Marie della parte sinistra; la quale ancorchè molto dolente si dimostri, nondimeno non manca di far quell’uffizio. che la madre per lo estremo dolore prestar non può. Il Cristo abbandonato casca con tutte le membra relassate, ma in atto molto differente e da quel che Michelagnolo fece per la marchesana di Pescara, e da quel della Madonna della Febbre. Saria cosa impossibile narrare la bellezza e gli affetti che ne’ dolenti e mesti volti si veggiono si di tutti gli altri, si de l’affannata madre; però questo basti. Vo’ ben dire che cosa rara, e delle famose opere che egli fino a qui abbia fatte; … Fa disegno di donar questa Pietà a qualche chiesa, ed a pie’ dell’altare, ove fia posta, farsi seppellire”.

Non si sa dell’esistenza di un vero biografo di Michelangelo oltre i sunnominati Condivi e Vasari. A Vasari ingenuamente rincresce che l’opera di Michelangelo in seguito a tre morti sia rimasta incompiuta.

Noi la pensiamo altrimenti. Non si sarebbe trovato il maestro per fare la gamba mancante e, per il resto, la Pietà giunta sino a noi, ad esclusione del plinto, come un’opera completamente terminata. Sappiamo che il Calcagni raccolse ciò che era stato distrutto, restaurò ciò che bisognava restaurare di quello che era andato perso, ma oltre a ciò nel corso del lavoro, purtroppo, introdusse qualche carattere estraneo nello studio della forma del capo della Maddalena; ma in fin dei conti l’opera fu conservata nell’aspetto che aveva prima della sua distruzione da parte dell’autore. Unica parte, a cui posero mano altri, oltre Michelangelo, è il plinto, che alla distanza di centocinquanta anni dopo la morte dell’autore fu sottoposto a qualche manipolazione. Guardando al gruppo ora, indubbiamente sentiamo, a grandi linee per lo meno, lo stile di Michelangelo.

Analizzare la questione delle parti restaurate dal Calcagni non rientra negli intenti del nostro studio; esse sono state enumerate in modo sufficientemente dettagliato nel libro del Tode “Michelangelo”. Tale è, sino al 1568, la storia di quest’opera stupenda ma sfortunata; storia che noi conosciamo dal Condivi e, soprattutto, dal Vasari, che presta ad essa un’attenzione tutta particolare, poi che sentiva, forse intuitivamente, il suo valore artistico e poiché aveva visto coi propri occhi il lavoro diretto del Maestro, tanto che nella sua “Biografia di Michelangelo” parla di quest’opera ben tre volte.

Noi dobbiamo essere riconoscenti al Vasari, perchè egli ci riferisce alcuni particolari sulla storia della creazione di quest’opera, particolari di non facile comprensione, forse, al fine di un giudizio esauriente e ciò a causa della sua vicinanza agli avvenimenti che accadevano sotto i suoi occhi, ma che ci danno oggi la chiave della comprensione e della rivelazione del processo profondo della creazione artistica di uno dei più alti geni dell’arte figurativa.

Dobbiamo menzionare anche il servitore di Michelangelo, Antonio, accanto al Calcagni e al Bandini, perchè essi, in un modo o nell’altro, conservarono all’arte l’opera di Michelangelo, che, anche se da lui rifiutata, cionondimeno, è per noi bellissima e forse anche più cara di altre opere, come una vittima della tempesta di profondissime emozioni spirituali del suo autore nell’ambito dell’atteggiamento morbosamente rigoroso verso la sua creazione.

Capitolo II

Per molto tempo le notizie sulla Pietà sfuggono alle nostre ricerche. Dal libro di Camillo Mallarmé “L’ultima tragedia di Michelangelo” (Roma, 1929) gentilmente inviatomi dalla studiosa fiorentina di storia dell’arte, sig.ra Nicco Fasola, sappiamo soltanto che nel 1652, cioè circa 100 anni dopo la sua creazione, il gruppo si trovava ancora a Roma nei vigneti di Montecavallo, in possesso del ardinale Bandini, figlio di Pierantonio; infatti lo scultore Bernini la vide colà, la studiò e ne restò estasiato; ma nel 1670 la Pietà era già a Firenze, posta, chissà perchè, nei sotterranei della Chiesa di San Lorenzo, dove fu portata da Roma per sollecitudine del Granduca Cosimo III. Infine, nel 1722, un anno prima della sua morte, il vecchio Cosimo fece trasportare la scultura dal sotterraneo, dove essa era restata 50 anni, nel Duomo di Santa Maria del Fiore; qui fu sistemata presso la parete posteriore dell’altare principale, di fronte all’abside, al posto del gruppo raffigurante Adamo ed Eva, opera di Baccio Bandinelli. in un luogo immerso nell’oscurità anche nelle ore diurne (fig. 4).

Là la Pietà rimase fino al 1953, quando fu trasportata alla luce nella prima cappella a sinistra, come diceva un’epigrafe colà posta: “Per darle, infine, una illuminazione migliore”, “Clariore in loco locatum voluere”. Là la si potè vedere fino all’epoca dei primi bombardamenti che gli Alleati fecero sull’Italia. Allora il destino costrinse quest’opera sfortunata di Michelangelo a nascondersi di nuovo nel buio dei sotterranei, ora però del duomo di Firenze. Non so quando la Pietà fu riportata alla luce, ma nel 1945 le mie considerazioni circa l’errata disposizione della Pietà erano note ai circoli artistici ufficiali di Firenze e il 22 maggio 1946 la Pietà fu trasportata all’Accademia. come dissero le notizie dei giornali “ per una pulitura generale e per trovarle, girandola, una migliore disposizione “ (fig. 5).

Dall’Accademia II gruppo fu riportato nel Duomo, in ogni caso solo dopo il I948, e fu posta sul piedestallo antico e, contrariamente alla precedente sistemazione, fu voltata a destra.

Non abbiamo alcun dato storico su come esattamente fosse collocato il gruppo marmoreo nel luogo assegnatogli nel 1722, ma le misure della piattaforma del piedestallo nel Duomo, comunicateci dalla Sig.ra Nicco Fasola, e i nostri studi della forma di tutto il gruppo condotti sul modello di gesso, che si trova a Mosca, ci danno materiale sufficiente per stabilire le circostanze fondamentali di questa sistemazione, che ebbe un infausto influsso nel nascondere, per ben 200 anni, agli occhi dell’osservatore il vero aspetto di una delle opere più notevoli dell’arte mondiale. Perché questa Pietà sia stata posta dietro l’altare di fronte all’abside. e non in un qualsiasi spazio importante di una navata dell’immenso Duomo, perché sia stata posta in un luogo dove non giunge la luce del giorno in misura sufficiente, è difficile a dire e non ci è riuscito di trovarne alcuna spiegazione. Ma comunque sia, immaginiamo che il problema della sistemazione del gruppo scultoreo al suo posto sia stato complicato dalla circostanza che la profondità della piattaforma, sulla quale bisognava sistemare il grande gruppo marmoreo di circa 3 tonnellate di peso, era in tutto di 123 cm. mentre le dimensioni d’ ingombro del plinto in questa direzione, cioè secondo la giusta profondità della composizione, secondo i nostri calcoli erano come minimo di 160 cm. cioè 37 cm più grande rispetto alla misura totale della piattaforma predisposta.

Ai nostri ulteriori ragionamenti siamo giunti partendo da questa supposizione: che per questa scultura, dalla sua uscita dal laboratorio di Michelangelo fino alla sistemazione nel Duomo, la forma del plinto non fosse ancora terminata. Tale incompiutezza della forma del plinto e le esigue misure della piattaforma predisposta come piedestallo per la sistemazione del gruppo, per la necessità di porre la scultura evidentemente soltanto in questo posto, costrinsero a trascurare i valori compositivi dell’opera e a tener conto solamente delle sue misure fisiche. E le misure fisiche e la configurazione in senso stretto del gruppo sono tali che attorno alle quattro figure si può descrivere un rettangolo di 95 x 130 cm. e inoltre in un suo angolo si trova un piede del Cristo e nell’angolo vicino il piede della Maddalena (fig. 6) 1

Queste circostanze spinsero i sistematori alla decisione di tagliare più o meno il grande plinto tondeggiante secondo questo rettangolo e di sistemare la scultura con minori dimensioni d’ingombro nel senso della profondità: in tal modo sui 123 cm. di profondità del piedistallo furono posti i 92 cm. del plinto e perciò il gruppo ruotava, riguardo al punto originario di osservazione, in senso orario. cioè verso sinistra, di circa 40’. In tal modo, tra l’altro, i visi di tutte e quattro le figure vennero rivolti verso l’osservatore, il che, forse, nelle intenzioni dei sistematori, giustificava, a sua volta, tale rotazione. Il risultato fu che il plinto tagliato e girato fu posto sulla piattaforma in modo che il lato posto sotto la gamba del Cristo fosse parallelo al margine anteriore del piedistallo e in tal modo si avesse piena corrispondenza della forma e della posizione del plinto con la forma del piedistallo; e bisogna supporre che gli uomini che sistemarono la Pietà fossero soddisfatti di essere riusciti ad installare una scultura così grande su una piattaforma così piccola. Ma certamente essi non compresero di avere sistemato solamente un plinto tagliato e non l’opera.

Pertanto la scultura, bene o male, nel 1722 fu messa a posto. Sembrava che tutto si addicesse all’opera del grande Buonarroti, opera in verità “non finita” nella quale alla figura principale del Cristo mancava perfino una gamba. Questa incompiutezza, la storia della distruzione e della ricostruzione e, in particolare, la mancanza della gamba crearono per molto tempo una fama immeritata a quest’opera come di opera di secondo piano nell’ambito di una serie di lavori “non finiti” di Michelangelo. Ci si abituò alla vista dell’opera, sebbene essa si vedesse molto male colà, e senza esitazione si ritenne che fosse disposta correttamente.

Nel XIX secolo venne il momento della creazione delle gliptoteche. Necessitavano le copie delle opere classiche, giunse anche il turno della Pietà fiorentina. Essa fu copiata e i suoi calchi di gesso giunsero in numerosi musei di tutto il mondo. Le copie ripetevano l’originale con esattezza anche in rapporto alla sua disposizione: come nel Duomo essa stava rispetto alla parete dell’altare, così dappertutto le copie stavano rispetto alla parete della sala, cioè i gruppi erano sistemati sul piedestallo rispetto alla parete in modo che fossero rivolti verso l’osservatore i visi del Cristo, di Nicodemo e di Maria e in primo piano vi fosse il braccio sinistro di Cristo e il taglio del plinto fosse frontale (fig. 1).

Questa rotazione non fece sorgere a nessuno il dubbio sull’esattezza della sistemazione della scultura. In verità, la stessa composizione dell’opera da questo punto di osservazione generava spesso alcune perplessità: se era rimproverata a Michelangelo l’incompiutezza dell’opera, il distacco del gruppo di destra, composto da tre figure, dalla Maria di sinistra (così, in realtà si vede l’opera se si guarda dalla parte del braccio sinistro del Cristo), e si era osservato che, guardando da sinistra il gruppo, esso sembra molto più completo, soltanto che la Madonna, in tal caso, è coperta dal Cristo (Tode). Ma al plinto si credeva più che all’opera stessa e come punto di osservazione principale si continuò a considerare quello che parte dal braccio sinistro del Cristo. Tale punto di osservazione principale fu confermato anche a distanza di 211 anni, nel 1933, in occasione dello spostamento del gruppo in un posto nuovo, nella prima cappella dell’ala sinistra del Duomo, dove il plinto, rispetto al piedestallo, fu posto di nuovo come prima (fig. 7).

Capitolo III

Ciascun artista ha il proprio stile, il proprio metodo creativo, secondo il quale dispone le sue opere, per il quale noi lo riconosciamo. Vari possono essere i modi per scoprire lo stile dell’artista. Noi talvolta arriviamo a determinare il processo creativo di Michelangelo e contemporaneamente arriviamo alla determinazione del suo stile seguendo una certa teoria dinamica della composizione, che considera il processo della composizione e della creazione dell’artista dal punto di vista dellasua emozione interiore durante questo processo di varie sensazioni susseguentesi: della forza di attrazione delle forme create, della loro tensione muscolare, di ogni sorta di movimenti e di ogni genere di contrapposizioni esterne tra questi movimenti e sforzi ecc. Ogni composizione è il risultato dell’incontro del complesso delle forze di volontà dell’artista con il complesso delle forze di resistenza del materiale figurativo in cui questa composizione si realizza. Qui per “materiale figurativo” bisogna comprendere non solo la materia fisica con le sue relative proprietà: pietra, carta, colori, legno o bronzo da incisione e simili, con la loro forma geometrica, proprietà plastiche, capacità di riflettere la luce ecc… ma forse. non meno, le caratteristiche dinamiche dello spazio artistico dell’opera date dallo stesso compositore. volontariamente o involontariamente, la creazione, per così dire, del campo di forza della composizione di quest’opera. 2

Quando la ricamatrice realizza un qualche ornamento su di un asciugamano e vuole raffigurare in esso e le piante e l’uccello e il cavaliere, in essa in primo luogo si crea l’immagine rappresentante questi soggetti che non si differenzia in niente dall’immagine che essa ne ha nella sua vita comune. Ma durante il processo di creazione artistica, nell’incontro fisico con il materiale figurativo con le due dimensioni della tela, colla specie del punto e l’unico colore del filo ecc., questo materiale manifesta la sua attività come resistenza nota alla quale si sottomette l’immagine primitiva. Questo è un gruppo di resistenza. Un secondo gruppo di resistenza è creato dallo stesso compositore, supponiamo, sotto l’aspetto di limitazione del luogo e della forma dell’ornamento, di tensione del suo colore oppure della sua uniformità ecc… La limitazione del posto viene stabilita dallo stesso campo di forza” della superficie di composizione: i limiti della superficie non permettono all’oggetto raffigurato di andare oltre e quanto più esso è vicino, nella sua disposizione composita, ai limiti, tanto più ne sente la pressione e noi qui possiamo aspettarci una qualsiasi deformazione.

Nel centro invece esso usufruisce di una libertà di movimento enormemente maggiore. Ciò è simile alla nostra sensazione del campo di forza, ad esempio, di un pattinatoio dove correndo, e volendoci muovere diritto in avanti, da una grande forza siamo assoggettati al limite del ghiaccio sgombro e la nostra traiettoria diritta, indipendentemente dalla nostra volontà, viene deviata dall’inevitabile pressione di questo limite. Come risultato di questo complesso procedimento l’immagine primitiva si realizza in forma artistica perdendo alcune qualità della realtà effettiva, acquistando nuove qualità artistiche. Qui occorre dire che in queste circostanze, se il materiale per un motivo o per l’altro rimane passivo o si sottomette completamente alla volontà del compositore senza esprimere in alcun modo se stesso, si otterrà necessariamente una forma naturalistica, vale a dire, una forma non artistica.

In tal modo la composizione può essere vista, a parte altri aspetti, dal punto di vista della dinamica del processo della sua creazione. Una tale teoria ”dinamica” della composizione consente in molti casi un metodo analitico straordinariamente concreto, di analisi della produzione artistica, che può scoprire il processo di formazione dell’opera svelando tutti i suoi aspetti fondamentali. Per questo è necessario saper valutare la reciprocità delle forze dinamiche: il campo di forza nel materiale figurativo e la volontà del compositore, le idee del quale sono sempre riconoscibili nelle sue produzioni. Così è anche nel mondo dei fenomeni fisici. Osservando ad esempio i complessi ricamidel gelo fin sul vetro di una finestra, la loro “composizione” ci si rende chiara, se noi capiamo che qui hanno agito due forze complesse: a) il movimento dell’aria umida che si raffredda sulla superficie del vetro; b) la conduttività di questo vetro, dipendente dalla forma e dal materiale dell’intelaiatura e continuamente mutante durante il processo di congelamento, che crea varie temperature nei vari punti della superficie; per cui le correnti d’aria umida che si fermano, si congelano in varia forma e in modo complesso, formando disegni sempre regolari.

Lo spazio della scultura nel senso dell’organizzazione del suo campo di forza in relazione all’oggetto isolato può, nel processo creativo, ripetere lo spazio che effettivamente ci circonda e noi abbiamo allora una scultura oggettiva, a tutto tondo, dove l’oggetto nella sua raffigurazione ad esclusione della forza di gravità o di qualche altra forza. e una reazione alla quale specialmente è soggetta la raffigurazione, ad esempio il vento nella figura (Nike di Samotracia) (fig. 8) indipendentemente dallo spazio circostante. Questa è una forma estrema di immagine della natura; girando intorno a questa scultura noi non avvertiamo nessuna differenza nella percezione della sua forma dai diversi punti di osservazione.

Ma, accanto a questa, noi conosciamo anche la forma del bassorilievo, nello spazio scultoreo del quale si crea mentalmente e in anticipo un altro del tutto particolare campo di forza; nel suo spazio compresso, relativamente determinato, della direzione scelta e, propriamente, relativo alla superficie frontale, e compressione può essere uniforme, più o meno, oppure no, oppure ancora diversa. L’immagine a tutto tondo degli oggetti del mondo che ci circonda realizzantesi nella forma artistica del bassorilievo, cadendo, per così dire, nel suo spazio artistico, si sottomette a questa o a quella deformazione organicamente costruita. Nel bassorilievo ogni oggetto, in relazione alla sua posizione nella profondità dello spazio figurativo, risente di un certo grado di compressione; qui è possibile una certa diminuzione della prospettiva o una generalizzazione prospettica della forma. In questo caso ogni oggetto nella sua raffigurazione anche se schiacciato all’estremo viene percepito da noi nella sua forma completa. Nel suo allontanarsi dalla forma completa e nel suo avvicinarsi alla grafica, la scultura conosce anche la forma del bassorilievo, che prende solo il contorno della natura completa dell’oggetto. come una proiezione del margine del volume sulla superficie del bassorilievo, dopo di che la superficie interna a questo contorno è valorizzata dal rilievo. spesso anche astrattizzato, e non è sottinteso neanche il reale rilievo dell’oggetto ed il carattere della sua completezza. ma è soltanto come una limitazione dell’immagine dell’oggetto dal fondo. Questo è il bassorilievo egiziano, questa è un’altra forma dell’organizzazione dinamica artistica dello spazio scultoreo.

Tra questi due estremi ci si può presentare la più ricca e multiforme organizzazione del campo di forza della scultura, capace di portare con sé una corrispondente organizzazione di questa o quella percezione della produzione artistica avente questo o quel valore per l’arte. In Michelangelo nel corso di alcuni decenni si conservano molto fermamente determinati metodi di composizione, che sono caratteristici soltanto per lui e che noi non vediamo presso i suoi contemporanei e neanche presso i suoi allievi. In base a questi metodi di composizione noi possiamo con assoluta precisione determinare la paternità delle opere di Michelangelo. a condizione che fossero interamente opera sua. Michelangelo lavorava partendo, nella sua composizione, o dalla forma esistente del blocco di marmo — e questo blocco, prima di tutto egli vedeva nell’ambiente architettonico a lui noto — oppure, dopo aver preparato un blocco di determinata forma, corrispondente alla forma di quello spazio nel quale l’opera futura era destinata a vivere.

Per la maggior parte le sue opere erano su commissione e legate a questa o a quella composizione architettonica. Il blocco di pietra nel pensiero dello scultore conteneva in sé sia la figura sia lo spazio immediatamente circostante. E’ sufficiente guardare la figura dello Schiavo (della quale non è ancora cominciata la testa — montato a suo tempo nel muro di tufo del giardino di Boboli a Firenze) (fig. 9). Questa certa aria “di pietra” il Maestro l’ allontanava nel suo lavoro rivelando la forma in essa contenuta. Questo legame attivo, quasi materiale, tra la figura e lo spazio, che noi avvertiamo in tutte le sue opere, anche se era esistita nell’arte della scultura prima di lui, fu da lui portato fino al limite estremo di composizione organizzata. E’ questo che Michelangelo apportò di  particolarmente nuovo, che fece di lui il maestro insuperato della scultura “spaziale” per eccellenza.

Michelangelo è scultore, ma anche nella scultura egli non cessa di essere l’incisore per il quale l’apprezzamento del profilo della scultura futura diventa particolarmente importante. Non a caso egli lavorò per oltre dieci anni sulle impalcature della Cappella Sistina, dove nelle immagini colà create, il profilo ha un ruolo così significativo; non a caso i primi passi del maestro ci sono indîcati dai bassorilievi, ai quali anche successivamente si rivolse e dei quali gli elementi fondamentali sono il profilo e il “punto di osservazione unico”.

Egli immagina la sua scultura sin dalle prime scalpellature sulla piatta superficie del blocco di marmo, come grafica; anche adesso noi vediamo questa continua oscillazione antitetica tra scultura e grafica, alla quale si accompagna il suo processo creativo, quando egli concentra il suo primo piano (dal “principale” punto di osservazione) trattenendosi sulla verticale della superficie frontale e nelle immediate vicinanze quasi non avesse ancora la forza di staccarsi dall’immagine grafica per penetrare subito nella profondità della scultura e perciò condensa la superficie anteriore vicino al piano iniziale, raccogliendo in essa l’essenziale, ciò che lo spettatore deve immediatamente afferrare come inizio della “lettura” dell’opera. In questo primo strato del suo spazio scultoreo, in questa zona dove egli concentra i principali elementi della composizione, egli si crea come una resistenza raddoppiata del materiale in direzione del movimento in profondità, superando la quale ed entrando nella profondità della massa, dà una libera vastità al movimento in profondità, consente il libero dispiegarsi del normale rapporto tra le parti, spesso persino aumentando la velocità di penetrazione, quasi a compensarsi dello sforzo iniziale. La presenza di questa direzione generale in profondità ci permette di supporre che, se Michelangelo avesse elaborato la sua produzione a tutto tondo dalla natura, allora né la natura né la base della scultura, durante il suo lavoro, avrebbero girato.

Questa organizzazione tanto dello sforzo come della resistenza, (sottolineo organizzazione della resistenza) in un’unica direzione orizzontale, perpendicolare rîspetto al piano frontale iniziale, condiziona il disuguale valore dei diversi punti di osservazione dell’opera. Per inciso occorre notare che, come i raggi del sole di mezzogiorno, che sono i più alti ed i più ardenti, penetrano la neve primaverile nella direzione meridionale, così nella scultura di Michelangelo tra tutte le direzioni possibili quella relativa alla superficie frontale e iniziale è quella che consente gli incavi più profondi. Ne consegue che in Michelangelo c’è sempre un punto di osservazione principale delle sue sculture e che questo punto è da lui stabilito e determinato e al di fuori di esso l’opera può persino risultare incomprensibile. In tal caso noi vediamo le parti separate, non nell’insieme ritmico in cui sono state create per la contemplazione, o, addirittura, senza alcun ritmo. Allora guardando noi non vediamo un’opera d’arte in quanto tale voluta dall’artista nella sua composizione plastica; così come noi non vediamo un quadro guardando una tela di lato, oppure, osservando un bassorilievo di lato, noi non possiamo vedere lo spazio ritmico dell’opera. Per la verità vi sono alcune opere di Michelangelo che si possono vedere più o meno uniformemente con i dovuti accorgimenti lungo un certo arco di punti di osservazione. Ma occorre notare che in genere il problema del punto di osservazione è sempre impostato attivamente da Michelangelo ed esattamente risolto.

La conseguente ed irregolare deformazione dell’oggetto nello spazio scultoreo di Michelangelo si può rappresentare schematicamente se noi tracciamo in profondità un quadrato la cui superficie sia posta perpendicolarmente alla superficie iniziale (fig. 10). Allora nei primi strati dello spazio esso si comprime fino a diventare un rettangolo verticale e successivamente si corregge fino alla propria forma di quadrato oppure ancora prende la forma di un rettangolo orizzontale. Come sviluppo del principio della deformazione in profondità noi osserviamo tra i procedimenti di composizione di Michelangelo il principio che io chiamo di “movimento anticipato”, il che consiste nel fatto che nella raffigurazione del movimento di una qualche forma — testa, spalla, gambe — alcune parti o dettagli di essa si spostano in direzione del movimento complessivo con velocità alquanto maggiore rispetto al movimento di base. Così ad esempio nella raffigurazione di una testa girata di lato viene violata la simmetria del viso; il naso nel suo movimento sopravanza la bocca, la fronte il naso e i capelli tutto il resto. Questo in una certa misura è applicato dai predecessori di Michelangelo, come Luca della Robbia, nel movimento della testa indicato dalle pupille (fig. 11) ed è ciò che successivamente rende così vivi i ritratti scultorei del nostro Scjubin (1740-1905).

Questo principio schematico del “movimento anticipato” può essere rappresentato dalla raffigurazione del movimento di un rettangolo, che viene trasformandosi in rombo, conservando solamente e semplicemente la disposizione orizzontale della direzione primitiva (fig. 12). Questo principio apporta al movimento un carattere non solo dinamico ma persino in qualche misura cinematico. A causa di ciò questo principio fu accolto e introdotto nei metodi di composizione del Barocco. dove non raramente andava perso il senso della misura e forse anche la ragione, con imitazioni che conducevano ad un movimento scomposto di ordine puramente decorativo.

Una scultura realizzata coi metodi qui indicati e cioè avente un determinato punto di osservazione, deve collegarsi logicamente con la parete e con l’architettura in genere. Per meglio dire essa, a parte insignificanti eccezioni. presuppone in sé un rapporto noto con le coordinate architettoniche. Perciò essa deve essere esposta direttamente in corrispondenza dell’architettura circostante dove fondamentale e principale criterio di posizione è che la sua iniziale superficie frontale — se essa è determinabile nella scultura — venga sistemata parallelamente alla parete e non altrimenti: una qualsiasi altra sistemazione è una violazione della volontà creativa dell’autore.

Il Vasari descrivendo il sistema di lavoro di Michelangelo sul marmo dice che egli faceva dapprima un modello in cera della figura, lo metteva in un recipiente pieno d’acqua che toglieva poi man mano; la superficie dell’acqua indicava successive figure orizzontali grazie alle quali lo scultore si regolava nel suo lavoro in profondità nella pietra mettendo a nudo, dal blocco, dapprima le parti anteriori e procedendo poi in profondità. Qui si può immaginare che già nel lavoro sul modello Michelangelo prevedeva il procedere di queste figure orizzontali da quella anteriore a quelle in profondità, ed esse, forse persino involontariamente si esprimevano seguendo un ritmo, comprimendosi ed espandendosi, cioè non in modo metrico e uniforme.

Con questo metodo, poteva avvenire che Michelangelo mettesse effettivamente il modello di cera nell’acqua, o che la sua sola acuta immaginazione gli servisse per procedere dalla superficie attraverso tutta la massa scultorea dell’opera, soffermandosi sul principio di composizione della superficie iniziale e delle letture perpendicolari dell’opera in profondità, oltre il naturale collegamento dello “spazio” della scultura con la parete parallela al piano iniziale dell’opera.

La lotta tra sforzo del volere in profondità nello spazio della scultura nella direzione orizzontale e la resistenza del materiale nella stessa direzione è così forte in Michelangelo che fa sì che scompaiano le altre forze esistenti in natura, compresa la forza di gravità. Ciò si osserva in primo luogo nella raffigurazione della materia degli abiti, nella formazione delle pieghe in rapporto alle forme del vestito e a quelle delle membra sottostanti. Le pieghe dei vestiti in Michelangelo di solito non sono soggette alle normali leggi del panneggio, né alla forza di gravità. Spesso la piega adempie le funzioni di un volume, cioè di una massa che riempie la forma, tridimensionale, insieme ad altri volumi e dettagli rientranti nel ritmo compositivo della plastica della figura o del gruppo e non esprime solo il soccombere della materia come superficie bidimensionale. Di solito però la materia in Michelangelo sembra muoversi indipendentemente dal suo peso. Essa per prima si sottomette alla pressione dinamica orizzontale, di cui si parlava prima, quasi essa tendesse già in avanti sotto l’impulso potenziale del gesto.

Talvolta per l’abitudine alla forza di gravità, osservando una scultura di Michelangelo. ci sembra che la figura giaccia e che noi la si guardi dall’alto tanto la materia è alleggerita, tanto essa si solleva oppure si espande. Questa specifica relazione di Michelangelo con la forza di gravità, alla quale così liberamente egli si rivolge, talvolta senza neanche avvertirla, gli ha consentito la creazione delle posizioni, che paiono impossibili, delle quattro Fasi del Giorno sulla tomba dei Medici, le quali dovrebbero suscitare nello spettatore uno sgradevole senso di slittamento delle figure giacenti sulle basi architettoniche. Ma a nessuno viene in mente una cosa simile tanta è la stabilità delle figure e, al contrario, la tendenza a muoversi all’insù immedesimate come sono nella superficie iniziale di tutta la composizione, della quale si parlava prima e che qui, forse, come da nessun’altra parte è tanto concretamente avvertibile (figg. 11-14).

Nell’enumerazione di questi tratti caratteristici dello stile di Michelangelo si può aggiungere la sua caratteristica relazione con la completezza della forma, ovvero più esattamente con il senso del non-finito. In alcune opere noi vediamo la direzione organizzata percepita dallo spettatore come concentrazione della sua attenzione sull’elemento principale di fronte al secondario, ottenuta col non-finire le forme secondarie e quasi calandole nella semi oscurità. Nello sviluppo di questo principio di composizione bisogna ancora notare che Michelangelo in molte sue opere lascia il non-finito per le parti non visibili indicando così direttamente il punto di osservazione principale compiutamente determinato.

Capitolo IV

II piano frontale iniziale in Michelangelo è certo più chiaramente visibile nelle sue opere in bassorilievo. Con particolare chiarezza questo principio del piano iniziale e del movimento in profondità noi lo vediamo nei bassorilievi non finiti —l’evangelista Marco (fig. 15) e la Pietà di Palestrina — se si possono definire bassorilievi. Guardandoli noi assistiamo precisamente al lavoro del Maestro sulla pietra. II processo di passaggio della superficie non è ancora compiuto in fondo, l’acqua non è ancora eliminata completamente.

Noi sappiamo che essa mai lascia a nudo la figura completa, ma che questa è già arrivata alla forma manifesta: ciò lo avvertiamo senza esitazione e facilmente seguiamo il processo di progressione in profondità della lettura dell’opera. Tale era la volontà del Maestro.

La testa di Matteo è data di profilo, il profilo è più stretto della faccia; è più facile chiuderlo tra gli strati dello spazio compreso. II ginocchio sinistro, stretto e compatto nello strato anteriore, si piega sulla gamba destra per trovare posto. Il vestito sul ventre aderisce al corpo sotto la pressione dello sguardo volitivo dello scultore e le pieghe disposte ai margini mentre dalla coscia sinistra la stoffa si tende in profondità scoprendone la nudità. Gli stessi principi di composizione noi li vediamo nella Pietà Palestrina: è chiaro il piano iniziale nel quale sono raccolti il tronco, le cosce e tutto il braccio destro del Cristo con la mano reggente della figura posteriore, la testa della figura destra, la sua mano sinistra e il piede destro. Il movimento in profondità rende la testa del Cristo indebolita rovesciata straordinariamente deformata dal collo che si scopre in modo così notevole e funzionale. Il Mosè (fig. 17) è più complesso.

Nella sua struttura vi sono due sistemi. 1) Il tronco con la testa e le mani collegate al piano del muro; 2) le gambe collegate coi blocchi sporgenti ai lati. Occorre notare che qui il legame della scultura con l’architettura arriva a valori straordinari. Per questo la figura sistemata isolatamente è vista in modo del tutto diverso che non nell’insieme architettonico come dal suo autore era prevista.

Lo sguardo dello spettatore cade innanzitutto sul sistema costruttivo inferiore e precisamente sulla tibia destra. L’abito, quasi il vento lo abbia gettato sulla coscia, contorna questa tibia con pieghe violente. Il movimento anticipato della materia suscita in noi l’attesa del movimento e la gamba stessa ci sembra si sia apposta alzata per colpire la terra in un gesto d’ira, a causa delle leggere pieghe. II movimento delle pieghe si espande ai lati ed attira lo sguardo a destra e a sinistra, dove sullo stesso piano sono sistemati ai lati della nicchia i due blocchi; su di essi le volute delle loro mensole rovesciate continuano lo slancio del movimento della stoffa sulla gamba portandoci così alla base del piano del muro. Là viene portata, ma ancor più in profondità, la nostra attenzione dalla gamba sinistra nelle sue due parti: prima in basso le pieghe ricadenti della stoffa e poi nel profondo della nicchia dall’asse della tibia verso il piede.

Il tronco con il braccio sinistro, la mano destra sulle tavole della legge e la testa di tre quarti formano la superficie coincidente con quella del muro. La testa è girata ma il suo movimento è già anticipato dalle onde della barba e dell’estremo raggio sulla testa mentre nel volto noi vediamo il movimento anticipato della bocca rispetto al naso (fig. 18), e, insieme a ciò, l’estensione di tutta la metà sinistra del volto guida lo spettatore nella profondità della nicchia, che è una componente essenziale della struttura dell’opera. La barba si sposterà ancora oltre, il vestito sul petto si sposta raccogliendo le pieghe verso la spalla.

La figura è estremamente dinamica!…. E’ interessante comparare il Mosè col gruppo del Laocoonte (fig. 19), al quale Michelangelo a suo tempo tanto si interessò e che perfino copiò. Comparare come in entrambi si comporta la materia inanimata. In tutti e due i casi si ha un’estrema dinamica dei movimenti delle figure. In ambedue i casi si ha raffigurata la sofferenza. Qui la sofferenza dell’anima, là quella del corpo. ma nel Laocoonte la materia non partecipa alla dinamica del gruppo, essa è tranquillamente sospesa sotto l’azione della forza di gravità. Nel “Mosè“ invece la stoffa rende parte più attivamente, dirigendo e organizzando la nostra accettazione dell’opera.

Un altro confronto appassionato è quello con il “Mosè” di Sluter nel “Pozzo di Mosè” a Digione (fig 20), nella testa del quale come effetto del suo girare verso la spalla sinistra non si forma nessuna violazione d’ equilibrio e tutto rimane assolutamente simmetrico.3

Le figure di Lia e di Rachele che si trovano in San Pietro in Vincoli sono un tipico atteggiamento di Michelangelo verso la stoffa dei vestiti con la quale si sostiene l’espressione della pressione frontale da noi avvertibile sul petto e sulle gambe di Lia e sul petto e sulla gamba di Rachele, dove il gruppo centrale di pieghe si avvita verso la profondità della nicchia (figg. 21 e 22).

Nella figura dello “Schiavo morente”(fig. 23) con molta precisione si esprime il piano frontale dell’opera possente attraverso il gomito in alto, il mento, la mano, il ventre, il ginocchio sinistro e il taglio anteriore del plinto. La testa è abbandonata e questo gesto rafforza il movimento anticipato espresso nella grande corsa dell’occhio destro e della parte superiore della testa in generale (fig. 24). Tale costruzione, in cui la parte superiore della testa scorre più rapidamente, dà l’impressione della sofferenza, della passività in genere. Al contrario il movimento anticipato del mento nell’altra direzione crea un’impressione del tutto opposta, attiva, volontaria, che noi vediamo anche nella studiata composizione della testa di Mosè così come nella testa del “Bruto” (fig. 25).

Si pensa che in questa asimmetria del volto, in questo movimento anticipato del mento e della bocca rispetto al naso ed alla fronte sia compreso tutto il contenuto di questo insolito ritratto nel quale si è così espressa per mezzo dell’indicato principio la dinamica della volontà e persino dell’ aggressività. Per questa asimmetria anche la testa è girata di profilo e qui si sente la dipendenza della composizione dal busto di Caracalla, anche se questa svolta contribuisce a creare l’esigenza organica in Michelangelo del piano frontale iniziale. Questa asimmetria nel volto noi la vediamo oltre che negli ultimi esempi citati, anche nel secondo Schiavo (figg. 26 e 27), nel Vincitore della “Vittoria”, nel Davide, e forse particolarmente nel volto del Cristo nel rilievo di Palestrina. Occorre dire che Michelangelo in varia correlazione distribuisce la forma mobile in momenti anticipati a partire dalle parti estreme, superiori e inferiori fino alla combinazione del basso e dell’alto, contenendo la parte centrale oppure all’opposto facendo muovere il centro trattenendo l’alto e il basso. Ognuna di queste combinazioni crea una sua propria espressione.

13. Monumento a Lorenzo dei Medici – 14 Monumento a Giuliano dei Medici
Firenze, San Lorenzo

Le tombe dei Medici (figg. 13 e 14) sono una composizione assolutamente originale, nella quale la scultura disunita sistemata nelle forme architettoniche crea un’insolita espressione d’ insieme. La complessità è il risultato della sottomissione delle parti a qualche legge generale. Nel caso dato Michelangelo ha sottomesso la sua composizione a quella stessa legge che egli impiegò per sculture separate. Anche qui egli ha stabilito anteriormente un piano frontale iniziale col quale incomincia lo svolgimento dell’opera ed in esso la zona compressa. Questo piano passa sulla facciata del sarcofago ed in esso sono comprese le figure allegoriche giacenti. Abbiamo detto sopra del grande livello della loro compressione, che le porta ad una situazione “quasi grafica”, quasi alla situazione di silhouette piatta nella quale significativamente si perde l’impressione della massa e insieme del peso. Oltre la compressione, sulla diminuzione del senso della forza di gravità, agisce anche la composizione di tutte e quattro le figure. Effettivamente i ginocchi piegati di tutte le figure creano innanzitutto il movimento anticipato verso l’alto. Nel “Crepuscolo” in questa direzione si muovono la testa e la mano destra: nell’”Aurora” la mano sinistra, la testa e la fascia che da essa scende; nel “Giorno” la stoffa sulla coscia è diretta verso l’alto e verso il centro della composizione, e il braccio sinistro in entrambe le figure di questa tomba sostiene solidamente le figure evitando nel modo più assoluto di dare l’impressione di scivolamento in basso. Oltre a ciò il fondo architettonico dei gruppi coi doppi pilastri al di sopra delle teste delle figure giacenti a sua volta crea il senso di movimento verso l’alto.

E tutto ciò insieme ci consente la trasposizione delle parti inferiori della scultura fuori dei pendii del sarcofago. La necessità di questa trasposizione è dettata dall’indispensabile grandezza della composizione delle figure. In una figura isolata, poniamo, quella dello “Schiavo morente” il campo di forza dello spazio ha una zona condensata vicino al piano iniziale per poi rarefarsi accelerando ilmovimento di tutte le forme nella profondità della composizione, così qui al di là delle figure giacenti ha inizio uno spazio normale, il quale verso la profondità della nicchia ha la tendenza a rarefarsi ancor più e in ogni caso qui ci si può aspettare il fenomeno del movimento anticipato così come noi lo osserviamo nella realtà.

Le figure dei Medici sono sedute con le ginocchia in avanti e le oro pose aventi una grande profondità, forse persino esagerata, contrastano con il piano anteriore schiacciato: ma in conseguenza della legge di compressione e di espansione ci appaiono come un complesso armonioso. La posizione delle figure nelle nicchie crea la profondità spaziale di tutta la composizione. Sedute nelle loro pose, guardando dal punto principale di osservazione, la direzione del loro asse è strettamente legata compositivamente alle figure giacenti in primo piano ed entrambi i gruppi hanno un analogo schema di composizione. A questo rapporto contribuiscono anche i movimenti cadenti dei dettagli delle figure sedute — i nastri sulle spalle, gli abiti — e questo mentre le figure inferiori al contrario nella loro composizione tendono verso l’alto.

Molto saggiamente la testa del “Giorno”(fig. 28) non è stata terminata, infatti avrebbe stonato col suo guardare sopra la spalla, con l’uniformità delle parti finite. Mentre così com’è il primo piano è limitato dalla spalla massiccia oltre la quale sta, senza attrarre l’attenzione, la confusa massa della testa. Degno d’attenzione è lo strano berretto, insolito per la forma, sulla testa di Lorenzo, col muso ferino e le corna, che mascherano la loro congiunzione, così simili alle corna-orecchie della figura di Biagio nell’angolo destro in basso del “Giudizio universale” della Cappella Sistina; non meno strana la “scatoletta dell’avaro” sotto il suo gomito, col borsellino dalla testa ferina così fantastica. Giuliano, che con la mano sinistra conta alcune monete, ha i riccioli disposti in modo da assumere la forma di corna acuminate che, viste dal giusto punto di osservazione della testa, cioè a destra della tomba, sembrano proprio un paio di corna. In questa sua monelleria scultorea, l’artista-patriota ha voluto, si pensa, esprimere la sua ostilità verso i personaggi raffigurati, anche se qui non si tratta di veri e propri ritratti. Qui occorre soffermarsi un po’ più dettagliatamente sul significato e sul rapporto della scultura con la forma architettonica della composizione. La parte architettonica della composizione non può essere soltanto uno sfondo qualsiasi delle forme scultoree; sul fondo della parete è compresa spazialmente la composizione plastica nella quale le forme scultoree sono armonicamente e indissolubilmente legate con le fondamentali forme architettoniche; qui l’architettura fissa i limiti delle cose su di un muro quasi nero. L’architettura indica i parametri delle forme scultoree. L‘architettura indica il ritmo di lettura dell’opera. E la stessa compressione delle figure allegoriche, di cui si è parlato sopra, appare, nel caso dato, dettata delle esigenze della composizione architettonica. L’opera nel complesso è molto plastica, in essa è assai saggiamente utilizzata, nelle ore diurne, la luce che viene dall’alto del soffitto della cappella. Qui Michelangelo, quasi dipingesse, crea un naturale chiaroscuro e un ricchissimo rilievo visivo.

Le due cornici sono diverse, in altezza, in tre zone così come la rafforzatura centrale è divisa in larghezza pure in tre parti. La parte inferiore dello zoccolo ha forme semplici; le parti estreme sono decorate soltanto da assicelle rettangolari. Su questa fascia si proiettano i gruppi scultorei fondamentali di grandi proporzioni con i sarcofaghi e qui niente dell’architettura disturba la percezione. La fascia dello zoccolo e coronata dalla cornice. Questa cornice, grazie alla sua forte sporgenza, al fregio sotto di essa, all’ombra e all’illuminazione dall’alto, molto recisamente delimita la parte inferiore da quella media. Ma essa ha ancora un particolare e speciale significato: sottolineare la differenza nelle immagini di entrambi i gruppi. Su di essa, nella tomba di Lorenzo, delle figure del “Giorno” e del “Crepuscolo” – si proiettano soltanto le teste, i corpi invece passivamente giacciono sugli spioventi del sarcofago. Questa è la raffigurazione delle fasi delle ventiquattro ore. La meditabonda e calma posa di Lorenzo si trova in corrispondenza delle figure giacenti in basso. Sulla Tomba di Giuliano invece la linea della cornice interseca le figure all’altezza delle spalle e sulla sua altezza sono attivamente sollevati i ginocchi. Qui c’è una maggiore dinamica e la stessa posa di Giuliano è più viva di quella di Lorenzo.

Nella fascia centrale la tensione bilanciata dalla scultura gradatamente si trasmette all’architettura per mezzo della quale, nel processo di lettura di questa sinfonia plastica, si prolunga dal basso verso l’alto ed infine conclude questa eccezionale composizione. La parte centrale consiste fondamentalmente di tre parti delimitate da due coppie di pilastri. La nicchia centrale, nella quale sono situate le figure dei Medici, è molto semplice, il che concentra l’attenzione sulla figura seduta. La figura è più piccola rispetto a quelle giacenti e ciò crea il movimento verso l’alto. I pilastri con le loro basi visibilmente si fondono con il tronco delle figure e ciò le sorregge ed impedisce lo scivolamento per gli spioventi del sarcofago. Le nicchie laterali con le loro aperture e con i cigli, particolarmente pesanti, sulle cornici si inclinano verso le terminazioni inferiori delle figure svolgendo anche esse la funzione di movimento verso l’alto.

Sulla tomba di Lorenzo il sovraccarico delle superfici sulle cornici coi bassorilievi raffiguranti la coppia di orridi e fantastici mostri marini, in una certa misura compensa il rapporto delle parti alte con le pose passive delle gambe delle figure inferiori, mentre la saturazione dinamica dei gruppi del “Giorno” e della “Notte” rende superflue simili decorazioni in bassorilievo. L’arricchimento con cornici dell‘apertura delle nicchie conferisce loro un equilibrato significato, estendendo il rilievo lungo tutta la fascia. Il disegno complesso del capitello dei pilastri rispetto alle basi molto leggere e le appariscenti rotture delle cornici appesantiscono la parte alta della composizione creando un tratto orizzontale realizzato molto più energicamente. Mentre in alto, nella fascia superiore dell’attico riccamente elaborato, benchè pienamente e ritmicamente legato con la fascia media dai

dettagli, vi è una zona di distensione della pesantezza. Nelle parti laterali dell’arco delle cornici si riflettono ghirlande e vasi in bassorilievi. Le parti sopra i pilastri formate dai bassorilievi e dalle coppie di balaustre rivoltate (rivoltate per creare su di esse il chiaroscuro) terminano in alto a forma di acroterio con un movimento della superficie verso il muro. Non a caso sui piani estremi dell’attico, nella tomba di Lorenzo, i vasi con i nastri sono diretti verso il centro come incastonati al di sopra della composizione rispondendo alla posa raccolta della figura seduta, mentre in quella di Giuliano, al contrario, i vasi sono rivolti in fuori, e là il peso scultoreo delle figure giacenti è  più dinamico e il gesto del duca è più centrifugo. Tutta questa composizione è racchiusa in alto nel centro dalle figure in chiave decorativa le quali con la dinamica della loro forma portano nel corso della lettura lungo le pure superfici inferiori, nel suo centro ideale, alla figura glorificata. Per non parlare della composizione architettonica degli angoli con le porte accoppiate che tanto armonizzano con la composizione della figura.

Sbagliano le gliploteche che espongono in modello solo una scultura isolata delle tombe dei Medici, di questa eminente opera complessa di Michelangelo, sbagliano perché la sola scultura è insufficiente per una vera comprensione dell’opera. Questa scultura senza l’architettura è come la sola partita del violino nella partitura del concerto senza la partita dell’orchestra. Nella cappella, dirimpetto al muro dell‘altare si trovano altre tre sculture — nel centro la Madonna, opera di Michelangelo, ed ai lati le figure dei SS. Damiano e Cosimo, patroni della Famiglia Medici, opera degli scultori Montelupo e Montorsoli (fig. 29). Ma la Madonna, come figura media, non è abbastanza centrale. Il suo taglio verticale a sinistra e tutto il movimento a destra del gruppo suggerisce l’idea che quest’opera fosse destinata all’estremo lato sinistro in mezzo a qualche altra scultura (fig. 30).

II principale punto di osservazione è espresso qui molto chiaramente. Oltre che dal taglio del plinto il punto di osservazione è indicato dall’irregolarità del campo di forza dello spazio scultoreo. come se un flusso d’aria sul gruppo schiacciasse le vesti e muovesse le pieghe all’indietro. Il bambino è schiacciato in questa direzione e la gamba sinistra è spinta da qualche forza in profondità e con essa le spalle sono tese nello sforzo di girarsi. La madre sembra voler fermare col suo braccio un ulteriore movimento. Questa pressione nella Madonna si nota nel lato destro del suo viso. La fascia sulla testa a sua volta stabilisce anch’essa il principale punto di osservazione: la stoffa si incrocia non nel mezzo della fronte, ma sull’orecchio destro. e, simmetricamente ai capelli, sulla tempia destra.

La gamba sinistra accavallata sulla destra, dal principale punto di vista, resiste alla lettura della forma; al fine di impedire ciò il piede è piegato in basso in modo da allinearsi alla gamba. E al fine di inserire anche la gamba nella massa generale della scultura la stoffa viene fermata dal calcagno e sollevata sul plinto quasi fosse parte del sedile.

Capitolo V

Nel novero delle sculture di Michelangelo la Pietà fiorentina occupa un posto a sé. Questo unico gruppo fatto da quattro figure è una composizione a tutto tondo, composizione alla quale egli dava un significato tutto particolare. Michelangelo era vecchio e sentiva la morte vicina. Questa sua ultima opera, come egli allora pensava, sarebbe stata la sua scultura sepolcrale. Egli infatti volevache questa scultura fosse sistemata, nella chiesa, sopra la sua tomba. Inoltre immaginiamo che l’artista da vero cattolico, pensasse che questa scultura sarebbe diventata un’immagine sacra, capace di avere l’adorazione dei fedeli come la statua di S. Pietro nella cattedrale di Roma. Egli infatti trasmette i suoi tratti particolari al volto di Niccodemo e più propriamente vuole che, dopo la sua morte i sentimenti suscitati dall’immagine di questa sua opera artistica si riflettano in qualche modo su di lui, affinché alla sua memoria siano rivolti i pensieri delle generazioni future che verranno a baciare il piede del Cristo situato loro davanti; così come allora andavano a baciare il piede della statua di S. Pietro.

Non a caso egli chiama la figura posteriore Niccodemo invece che Giuseppe d’Arimatea, figura promotrice del fatto raffigurato (sbagliano gli autori che chiamano questo personaggio Giuseppe). Michelangelo non avrebbe potuto trasmettere i suoi tratti a Giuseppe, con il quale, dal punto di vista storico, naturalmente non avrebbe avuto nulla in comune. Egli raffigura proprio il fariseo Niccodemo del quale si narra soltanto che simpatizzava con la dottrina di Cristo e che talvolta discuteva con lui, nel segreto della notte. e che partecipò anche alla deposizione e alla sepoltura.

Michelangelo si permetteva il rapporto con Niccodemo, figura molto più neutrale, ma forse nella sua crescente insoddisfazione dell’opera voleva si aggiungesse anche questo momento. E’ la seconda volta che Michelangelo affronta nella scultura il tema della « Pietà », ma sono trascorsi cinquant’anni dalla prima. La prima, quella di S. Pietro, l’ha fatta da giovane, e ciononostante essa è brillante per tecnica, ma non si può non riconoscere che essa è troppo decorativa per l’espressione di questo tema, benché alla base di questa composizione vi sia uno schema abbastanza diffuso nell’arte gotica. Adesso Michelangelo è vecchio, reso saggio dalle vicissitudini, completamente disilluso anche se la sua vita è straordinariamente ricca di creazioni. Egli vede la vita già in un altro modo, i suoi occhi penetrano il nascosto mondo interiore, e quello stesso tema è interpretato diversamente e questa interpretazione comporta una diversa espressione formale.

Per la verità confrontando queste due opere si notano anche alcuni tratti comuni. Una gamba di Gesù giace sulle ginocchia della Madonna e, se si confronta quale posto è assegnato al braccio di Cristo nella Pietà di Roma (fig. 31) e come è sistemata la gamba in quella fiorentina, noi sentiamo ora per questi dettagli una certa “esibizione”. Le citazioni del Vasari c del Condivi, da noi riportate all’inizio, scoprono nella tematica generale il contenuto dell’opera. Effettivamente la figura centrale del Cristo ha la particolare rara espressione di un corpo senza vita. II corpo viene deposto dall’alto della croce avvolto in teli che qui vediamo circondargli il petto. In basso i parenti cautamente accolgono il corpo lentamente afflosciantesi per il proprio peso. La testa è reclinata sulla spalla sinistra e all’indietro. La madre regge la testa del Cristo appoggiando ad essa il suo viso. In questo gesto, cui si accompagna l’atto di sorreggere l’ascella col braccio sinistro, è espressa la tenerezza della madre verso il figlio. Questo reggere passivamente dal basso col braccio e con le ginocchia è lo sforzo di chi perde egli stesso le ultime forze. La sua testa è nascosta per metà a chi guarda. Noi vediamo il gesto e subito avvertiamo il viso sofferente e solcato di lacrime della Madre divina, sulla quale è sospesa la terribile profezia di Simeone… Niccodemo, nella parte alta, il segreto dell’apprendistato del quale è espresso dal cappuccio alzato sulla sua testa, regge attivamente il corpo con il braccio destro sotto la spalla ed il braccio di Cristo, sotto lo sforzo si solleva. La sua mano si trova al centro del bicipite. Egli non può permettersi di reggere il corpo per il torso nudo, come fa la madre, ed in questo gesto noi vediamo la raffinata espressione dell’attenzione verso il corpo inanimato del Maestro. L’altra mano, non visibile a chi guarda, è posata sulla schiena della Madonna in un gesto alleviante di comprensione.

Maddalena è inginocchiata, sostiene la coscia di Cristo attraverso l’abito, non osando toccare il corpo, anche se morto, direttamente. Insieme a ciò essa ha improvvisamente sentito che nel movimento passivo del corpo del Cristo la Sua mano le ha toccato la schiena ed essa istintivamente si è chinata solo con la schiena per trattenere per un secondo questo prezioso contatto. E’ meraviglioso vedere con quale fine penetrazione psicologica sono espresse qui le tre antiche gradazioni del senso del contatto: quello della madre, dell’amico della donna (4). Osservando la forma composita della Pietà noi cerchiamo naturalmente i segni caratteristici della creazione michelangiolesca. Innanzitutto c’è il piano frontale iniziale o no? C’è, poiché questa è una delle più tipiche opere di Michelangelo, si potrebbe dire, il culmine della sua opera, nella quale sono raccolti tutti i migliori risultati dell’esperienza creativa della sua lunga vita.

II piano iniziale frontale passa, e questo è evidentissimo. per il braccio sinistro di Cristo, la mascella inferiore, tutto il braccio destro, attraverso il braccio destro della Maddalena. la sua coscia destra e la gamba del Cristo: in alto esso passa per la guancia di Niccodemo. Da questa superficie di condensazione della forma si legge nella profondità del gruppo, muovendo indietro, lo sguardo attivo dell’artista; noi vediamo come le sue volitive forze orizzontali comincino a deformare ciò che cade nella loro zona, allunghino il viso della Madonna, anche le pieghe del fazzoletto sul capo, così come le pieghe della sua gonna. La testa di Tanto nella testa del “Giorno” quanto in quella della Madonna un’ulteriore compiutezza avrebbe nociuto sia all’espressione dell’insieme sia all’idea dell’opera. In tal modo le qualità qui presenti, tipiche dello spazio di composizione di Michelangelo, dal punto di osservazione determinato passano severamente per la superficie frontale iniziale del gruppo . Da questo punto di osservazione il piede viene a trovarsi al centro della composizione e più vicino allo spettatore ed in ogni modo non al margine sinistro del gruppo come si è voluto dal 1722. A parte questo aspetto formale noi pensiamo che questo piede, come abbiamo detto sopra, sia stato voluto dall’autore per il rito religioso dell’ accostamento e perciò esso doveva essere in avanti e al centro della composizione. Considerando tutte queste circostanze tanto per il senso e il contenuto quanto per gli aspetti formali pensiamo di avere le basi sufficienti per supporre che il gruppo nel duomo di Firenze, in relazione alla sua accettazione visiva e per il suo significato. sia stato posto nel 1722 e poi nel 1933 in modo errato. Il piano iniziale invece di essere posto parallelamente al piano del muro, in entrambi i casi, è stato messo in posizione angolata. Da qui sono derivate tutte le altre inesattezze.

Così sono sistemate erroneamente tutte le copie in tutti i posti dove si trovano. Così ancora sono sbagliate nella maggioranza le fotografie del gruppo in quanto prese da un punto di osservazione sbagliato. Effettivamente osservando il gruppo come lo si guardava dalla parte del gomito sinistro del Cristo (fig. 1), a parte la sgradevole sensazione dell’allontanamento verso il muro, a sinistra della superficie iniziale frontale così chiaramente espressa, noi vediamo l’inespressiva e quasi diritta linea di contorno: la spalla destra di Niccodemo, il tronco di Cristo e la sua coscia fino al ginocchio; questa linea riecheggia l’asse del braccio sinistro e tutto il contorno destro col quale si chiude l’affollato e abbastanza deforme gruppo dei tre, dal quale si allontana incomprensibilmente la figura della Maddalena così piccola con il contorno sinistro perpendicolare alla coscia. Nella figura della Madonna tutto ciò che è a destra del braccio del Cristo è sgradevolmente alterato e senza ragione incompiuto. Anche il braccio destro di Cristo è visto in uno scorcio del tutto inespressivo. A compimento di tutto lo spettatore vede le rafforzature di carattere meccanico solitamente a lui nascoste, come l’unione dell’indice della mano destra di Niccodemo con la nuca di Maria.

Michelangelo in nessuna delle sue sculture ha lasciato tali unioni a meno che non dovessero sostenere fragili parti di dettaglio in marmo. Bisogna ricordare che per lui simili rafforzature (che tra l’altro abbondano nelle antiche copie romane) erano, dal punto di vista estetico, inaccettabili. Il rafforzamento molto probabilmente fu messo dal Calcagni quando raccolse le parti rotte. Certamente egli non poteva ignorare l’atteggiamento di Michelangelo verso questi espedienti e se si permise ciò, fu soltanto perché dal punto di osservazione principale rimaneva nascosto questo dettaglio. Le cause dell’errore o della posizione sbagliata, tollerata duecento anni fa, abbiamo cercato di stabilirle prima, ma l’ulteriore convalida di questo errore deriva dalla nota incomprensione della sostanza del metodo di creazione composita di Michelangelo. Da questo deriva la non considerazione di un elemento compositivo quale la superficie frontale iniziale, unita alla fatalistica fiducia nella forma del plinto, quando non c’era alcun fondamento per tenerne conto in quanto i suoi limiti definitivi non sono stati dati dall’autore.

Qui occorre notare che in seguito al trasferimento della scultura, nel 1933, nel suo nuovo posto, nella prima cappella dell’ala sinistra del duomo, se sono migliorate le condizioni di illuminazione, per quanto riguarda il punto di osservazione, essendosi conservata la relazione tra plinto e basamento, la situazione non solo non è migliorata, ma è addirittura peggiorata. Dietro l’altare la scultura stava relativamente non molto in alto e ciò corrispondeva pienamente alle intenzioni dell’autore e alla composizione effettiva. Ma nel nuovo posto la Pietà fu sistemata su una base alta 178 cm, il che, da solo, creava uno scorcio inammissibile.

La storia delle esposizioni delle opere di Michelangelo conosce molti casi di sistemazioni sbagliate e correzioni successive, dunque il caso della Pietà fiorentina, non è straordinario. Sappiamo che la posizione dello “Schiavo incatenato” al Louvre era una volta sbagliata (così come le copie di questo negli altri musei) mentre l’attuale è corretta. Conosciamo i casi di esposizione sbagliata delle copie delle tombe dei Medici. Ci sono note le riprese laterali, da un punto di osservazione errato, della Madonna di Bruges e ciò deve dipendere dal fatto che là il gruppo sta o stava erroneamente.

Capitolo VI

Cosa si deve fare con la Pietà e come deve essere esposta? Dalle considerazioni su esposte si può trarre la conclusione che l’unica posizione corretta deve essere tale rispetto al muro (e il gruppo indubbiamente è fatto per stare presso un muro ed avere un unico punto di osservazione) per cui il petto del Cristo sia visto di fronte e la parte più avanzata del gruppo verso chi guarda sia la punta del piede. In altre parole il gruppo deve essere fatto ruotare verso destra, in senso antiorario di 38-40° e deve stare su una base non troppo alta, diciamo di 90 cm. In questo caso il plinto si presenterà d’angolo allo spettatore; ciò dipende dal fatto che il plinto in questa scultura. come abbiamo già notato, non era stato formato definitivamente dall’autore quando l’opera, in circostanze assolutamente insolite, uscì dal suo laboratorio, e nel 1722 fu tagliato secondo le idee dei collocatori. Se osserviamo i plinti delle sculture di Michelangelo vediamo che essi di regola sono i più piccoli possibile. Naturalmente il plinto in questi casi veniva fissato verso la fine del lavoro sull’opera. Lo scultore, allontanandosi per osservare, non aveva ancora trovato la nuova variante e perciò non poteva ancora decidere definitivamente a proposito del plinto; esso rimaneva per così dire allo “stato grezzo”; durante la prima collocazione il plinto fu tagliato e dopo centinaia d’anni la sua forma, considerata quella voluta dall’autore, indusse in errore suscitando giudizi contraddittori anche al giorno d’oggi.

Per analogia con altre opere di Michelangelo ci si può immaginare che il Maestro, tagliando il plinto alla fine del suo lavoro, se avesse potuto portarlo a termine avrebbe lasciato una sporgenza sotto il piede destro di Cristo, quale noi lo vediamo oggi ad esempio sotto il piede di Giuliano de’ Medici o piuttosto il plinto là non ci sarebbe stato come è sotto il piede di Lorenzo. A sinistra il plinto probabilmente sarebbe passato allo stesso livello della gamba della Maddalena. A destra probabilmente la maggior parte della superficie tra il piede destro del Cristo e la traccia del sinistro poteva pure essere allontanata. Certo nella nostra supposizione possiamo parlare soltanto della ricostruzione di qualcosa indubbiamente perduto e chiaro adesso a noi per la forma, ma in nessun modo dell’allontanamento del non-finito e perciò non ci rimane che accettare la forma del plinto così come è e considerare il problema del punto di osservazione solo in base alla composizione del gruppo e principalmente ed esclusivamente dalla sua superficie frontale iniziale.

Allora la scultura ci si presenta in una composizione del tutto nuova, nella quale una rara armonia d’assieme lega tutto il gruppo (fig. 33). Così non è più possibile rimproverare a Michelangelo di aver disunito il gruppo di Cristo, Nicodemo e la Madonna, dalla Maddalena, non armonizzata con essi nelle proporzioni, così come fa un attento ricercatore quale il Tode. La silhouette generale si arricchisce del contorno così elaborato a sinistra del gruppo che appare in un complesso incontrarsi di tre braccia e della figura, adesso tutta scoperta, della Maddalena, le cui dimensioni appaiono armonicamente precise per una “figura di contorno”: la sua piccola testa, il profilo di Niccodemo coperto dal cappuccio e il viso seminascosto della Madonna collegati tra loro circondano e mettono in evidenza la figura centrale del Cristo. La linea centrale e fondamentale della composizione — l’asse del tronco di Cristo — in alto passa per il petto ed il volto di Niccodemo e in basso per la coscia del Cristo e crea un arco, con il centro a destra, e un movimento rapido come per un tragico crollo rompe la sua direzione verso la tibia e sposta la nostra lettura della composizione dal contorno al raggio avente ancora il centro a destra. L’arco di contorno a destra è segnato dalle due braccia mentre a sinistra dal braccio della Maddalena, con la sua testa al centro della linea, passa in alto al braccio di Niccodemo.

Noi leggiamo l’arco fondamentale cominciando dalla sua parte centrale: essa qui è segnata, con una matita rossa, dal cerchio delle braccia. Con uno sguardo laterale notiamo l’inclinazione di Niccodemo e rapidamente muoviamo in basso per la coscia, come lungo una linea. Le due braccia che la circondano condensano la dinamica di questo movimento. Infine il ginocchio e la brusca svolta. Le mani, quelle di Cristo e quelle della Maddalena, sono inclinate verso destra e persino con una certa “anticipazione” e con ciò contrastano il nostro movimento che dal ginocchio si sposta a sinistra. Qui incomincia la seconda fase della comprensione: scendendo dal centro, come lungo un tronco, noi ci soffermiamo sul raggio inferiore, sulla gamba e da qui cominciamo a salire lentamente e per gradi.

Noi seguiamo per raggi ascendenti. Ecco la linea: la spalla della Maddalena, la striscia di stoffa, e, uniti in un unico punto, i due gomiti. E più in alto una linea di maggiore tensione: il braccio destro del Cristo che avvertiamo molto energicamente come anticipato di balzo, come “avanti tempo” della sua mano, il braccio e poi iI collo nel quale si concentra il massimo di dinamicità là dove si intersecano il raggio e il contorno verticale. Al di là, a destra, è già la calma, la diminuzione del movimento sulla linea degli occhi, e, ultima, la stasi completa presso la fine data del movimento trasversale della testa della Madre divina.

Questa fase orizzontale, culminante come per attrarre su di sé l’attenzione, è sottolineata da un’energica linea diritta: la mano di Niccodemo, il panno sul petto, la spalla della Madre. E, oltre, iI movimento radiale di tutto ciò va già estinguendosi nella spalla di Niccodemo e, infine, nel suo sguardo abbassato e nel contorno superiore del cappuccio raccogliendosi definitivamente nelle due teste riunite. quelle della Madre e del Figlio. Così si legge, in modo nuovo, questa meravigliosa opera di Michelangelo. Noi notiamo ancora lo spazio spiacevolmente vuoto nella parte inferiore destra della silhouette generale. Il che non era nella silhouette della primitiva impostazione. Qui manca l’altra gamba di Cristo. A ciò dobbiamo rassegnarci.

Capitolo VII

In questa assenza della gamba è racchiuso tutto il dramma, tutte le sfortune di quest’opera eminente, che nel corso di oltre duecento anni fu osservata senza che se ne vedesse la vera immagine. Sappiamo che Michelangelo lavorò ad essa a lungo e tenacemente. Sappiamo che c’era qualcosa che non andava e che ciò dipendeva proprio da questa gamba. Fatta questa gamba, una traccia della quale noi ancora notiamo sul plinto ed in base alla quale traccia possiamo supporre che essa giacesse attraverso il ginocchio della Madre e occupasse l’attuale vuoto nella parte inferiore destra che disturba l’insieme, Michelangelo capì che aveva sbagliato la posizione di questa gamba. Le gambe disposte lateralmente impedivano l’espressione passiva del corpo morto deposto. Si otteneva così l’impressione di viva stanchezza o di svenimento, le gambe, come fossero vive, poggiavano a terra e quasi si muovevano. Egli eliminò la gamba fatta e si accinse ad una nuova variante. Del lavoro su questa nuova gamba parla il Vasari nel suo racconto sulla lucerna caduta.

Noi comprendiamo bene che cosa abbia indotto il fiero e orgoglioso Michelangelo a compiere questo gesto; quali furono le vicissitudini del suo animo in quell’ora tarda della sera, quando dopo i vani sforzi per trovare la soluzione giusta e necessaria appare l’ospite inatteso, questo Vasari, con il quale ha avuto finora a che fare e che, nel profondo del cuore. non rispetta. Il suo sguardo curioso al lavoro fa perdere l’equilibrio all’artista, lo induce a violare le regole dell’ospitalità ed a compiere il gesto offensivo per chiunque. Ma, ben presto egli riacquista il controllo di sé e inventa la favola della morte che gli appare spesso e che lo afferra per il mantello…

La soluzione non fu trovata e noi, oggi, possiamo affermare che non poteva essere trovata. Avendo eliminato una gamba Michelangelo comprende che con l’unica gamba rimasta la figura, in quanto rappresenta un corpo morto, appare persino meglio che con un’altra variante qualsiasi dell’altra gamba in funzione di ciò che ne rimane. Ma in conseguenza della mancanza di una gamba rimane un vuoto nella composizione. Evidentemente questa gamba costituiva l’estrema parte inferioredestra del contorno di tutta la composizione e pur nella sua michelangiolesca relazione di indipendenza verso la forma nella scultura l’autore non può mostrare al mondo la sua opera in questo aspetto. La presenza di una cosa fallita nel laboratorio sarebbe stato un continuo ricordargli l’errore. E allora viene la decisione nuova, formidabile: rompere, distruggere l’opera e farne una nuova nella quale l’errore sia corretto. Egli capisce adesso, grazie alla sofferenza vissuta nella creazione, che una sola gamba, più precisamente, una sola direzione può dare l’impressione dell’abbandono della figura del morto, simile al movimento degli anelli inferiori di una catena che penda dall’alto sul suolo. Da qui l’unica soluzione del problema: entrambe le gambe devono essere unite, come una sola. Proprio come esse stavano, sul legno della croce, unite dai chiodi…

Così nasce l’idea di Palestrina che, per composizione è tanto vicina alla Pietà fiorentina (fig. 16). A Oxford, all’ “Ashmolean Museum”, vi è un disegno di Michelangelo; uno schizzo della composizione della Pietà di Palestrina, ma con una sola figura reggente. Michelangelo è vecchio, leforze cominciano ad abbandonarlo; per un gruppo scultoreo a tutto tondo esse non bastano mentre possono bastare per un rilievo. Il rilievo deve essere gigantesco, per le dimensioni, ma il lavoro nel rilievo può essere interrotto in qualsiasi momento; anche il primo disegno sulla superficie della pietra può restare come forma di realizzazione dell’idea, anche se la Morte lo afferra per la mano durante il lavoro. Per fortuna il Maestro può portare il lavoro oltre il primo disegno e anche se l’opera non è stata portata a termine, il mondo possiede oggi una grande opera d’arte; questo canto del cigno del grande Artista è la rivincita sull’errore commesso prima. In effetti l’ultima opera, l‘autentico canto del cigno di Michelangelo è la Pietà Rondanini (fig. 34), la quarta sua opera su questo tema, iniziata, insoddisfacente, rifatta, interrotta dalla morte improvvisa che portò con sé il segreto dell’ultimo pensiero dell’Artista, lasciando ai posteri l’enigma.

E così, la soluzione è stata trovata e mentre l’ardore del pensiero non si è ancora raffreddato, il martello fa a tempo a rompere il gruppo. Che cosa esattamente fu rotto, per noi oggi non ha importanza, noi capiamo soltanto che il servo Antonio interruppe la distruzione dell’opera all’inizio e convinse il maestro che era meglio egli regalasse quanto ne restava piuttosto che distruggere il risultato di un lungo lavoro. Michelangelo acconsente e, occorre pensare, volentieri, poiché è difficile credere che l’opera gli fosse ormai del tutto estranea e che in lui non sorgesse rincrescimento per il gesto compiuto. La richiesta del servo aperse all’animo orgoglioso di Michelangelo la possibilità di prolungare la vita alla sua creazione, anche se il Cristo ha una gamba sola. L’opera fu portata via e conservata, benché rotta, dall’uomo che viveva nella stessa casa di Michelangelo e che non si occupava di arte, ma che con la sua richiesta aveva salvato la scultura. Egli stesso non l’avrebbe data né mostrata a nessuno.

Senza difficoltà Michelangelo consentì il trasferimento dell’opera al Bandini, al quale Calcagni chiese il permesso di ripararla e, grazie a ciò, la scultura potè riassumere l’aspetto precedente. La parziale distruzione da parte dell’autore, agli effetti dell’esposizione, rimaneva un fatto. Ma la cattiva impressione data dai colpi di martello su forme così preziose e così legate a profonde vicissitudini ha fatto dimenticare, sia pure parzialmente, altre cose allora note.

Dicembre 1944 – novembre 1946


L’articolo era già stato scritto quando noi ricevemmo dalla signora Nicco le riproduzioni dell’incisione di Cherubino Alberti e del quadro di Lorenzino da Bologna, entrambi raffiguranti la composizione della Pietà di Michelangelo (figg. 35 e 36).

L’acquaforte dell’ Alberti raffigura il gruppo marmoreo della Pietà poggiato per terra nei vigneti di Montecavallo circondato dagli oggetti caratterizzanti gli avvenimenti raffigurati: davanti al gruppo una borsa con strumenti, i chiodi strappati, dietro la grotta, nella quale si vede il sepolcro, il suo plinto; in lontananza tre croci. Alle figure del gruppo è data l’apparenza di persone vive. Ma ciò che per noi è più interessante è la forma del plinto che nell’incisione è molto più grande dell’attuale ed ha i margini non squadrati. L’acquaforte è stata ripresa direttamente dal vero su una lastra di rame, il che è indicato dalla stampa rovesciata rispetto alla vera posizione. II punto di osservazione del gruppo è vicino a quello da noi proposto: la figura di Cristo è più girata rispetto al punto di osservazione del 1722 e, benché il viso della Maddalena sia situato di fronte, tuttavia la sua figura è più scoperta a sinistra, per cui si può vedere il suo gomito sinistro.

Il quadro di Lorenzino da Bologna rappresenta una variazione della composizione di Michelangelo, rispetto alla quale sono aggiunte altre tre figure. È certo che Lorenzino disponesse di due fonti: l’incisione dell’Alberti e l’originale di Montecavallo, poiché il punto di osservazione del gruppo è diverso da quello dell’incisione, e più coincidente direttamente: volto, petto e braccia; la Maddalena in avanti col viso di tre quarti, la Madonna arretrata e Niccodemo è più volto verso l’osservatore. E’ interessante notare qui come sia semplice il principio di composizione dell’esposizione dei personaggi di fronte, il che, come abbiamo detto a suo tempo, ha giocato evidentemente il suo ruolo nella sistemazione del gruppo nel 1722.

Questo rapporto delle due raffigurazioni e i dati della vita dei due autori ci danno la possibilità di stabilire alcuni limiti di tempo nella realizzazione di queste due opere. Alberti nacque nel 1553, Lorenzino morì nel 1576. L’incisione può essere stata fatta dall’artista a 17-20 anni e perciò la data probabile dell’acquaforte è il 1570; nel corso dei sei anni successivi fu dipinto, evidentemente, il quadro di Lorenzino. In questi due documenti vengono confermate le nostre supposizioni: L’incisione dell’Alberti indica che il plinto attuale della Pietà non fu opera di Michelangelo, ma fu tagliato per poter sistemare il gruppo nel 1722 in un luogo ristretto.

II plinto fu tagliato senza alcuna relazione col punto principale di osservazione, che dall’Alberti fu preso più correttamente e da Lorenzino affatto correttamente. Occorre qui considerare la circostanza che l’Alberti può raffigurare la scultura che gli sia di fronte, a terra, come gli pare, da ogni lato. Lorenzino invece nella composizione pittorica può unicamente confermare l’unico punto di osservazione principale. Noi nel nostro esame siamo passati dallo studio della forma della composizione della scultura a determinate supposizioni relative al plinto e al punto giusto di osservazione. Le rappresentazioni grafiche hanno confermato le nostre supposizioni.

Nell’estate del 1948 ricevetti una copia del giornale fiorentino “Il Nuovo Corriere” del I giugno col seguente articolo di Giusta Nicco Fasola: Uno studioso russo ha capito l’ultima tragedia di Michelangelo (segue il testo). Nell’agosto del 1949 al Museo di Stato delle Arti figurative in Mosca la copia della Pietà fu sistemata davanti ad una tenda, sulla scalinata principale secondo le mie indicazioni (fig. 37). Anche l’originale in S. Maria del Fiore è stato girato.

Infine nel marzo 1961 ricevetti da Firenze dal professor Cesare Fasola la foto dell’attuale esposizione della Pietà nel Duomo (fig. 38). Questa foto mi fu presentata dal prof. Filippo Rossi, il primo direttore della Galleria d’Arte di Firenze. Da questa lettera ho avuto anche la triste notizia della scomparsa della signora Giusta Nicco Fasola, che tanto mi aveva aiutato sia coi materiali sulla storia della Pietà sia col sostenere le mie idee per una corretta esposizione dell’originale. Possa questa mia ricerca essere un modesto omaggio alla memoria della Scomparsa a me tanto cara.

Il gruppo è voltato secondo le mie proposte e gli Italiani lo riconoscono ma essi non hanno deciso, oppure non hanno potuto farlo notare così ragionatamente e coraggiosamente come abbiamo fatto noi al Museo di Stato. Capisco che di nuovo come nel 1722 lo stato del piedestallo ha impedito ciò: evidentemente il gruppo è stato voltato in senso antiorario finché i quattro angoli del perimetro del plinto hanno raggiunto i limiti della lastra del piedestallo (fig. 39); l’ulteriore svolta fino alla giusta posizione deve far scivolare sul piedestallo l’angolo posteriore del plinto e far sporgere questo di 16 cm circa.

Nella nostra esposizione le dita del piede di Cristo si trovano quasi al centro della facciata del piedestallo: il volto di Niccodemo è quasi di profilo e la Maddalena è di tre quarti. A Firenze il volto di Niccodemo è di tre quarti e la Maddalena quasi di fronte. Da noi, accanto alla caratteristica fondamentale, la sistemazione della superficie iniziale frontale parallela al muro , il gruppo si divide nettamente: da un lato la figura del Cristo e dall’altra, le tre figure assistenti. Questa divisione è data dalla stessa composizione espressa dalla diversa grandezza delle figure.

A Firenze la superficie frontale iniziale non è posta parallelamente al muro ed in questa posizione il principio della diversa grandezza delle figure non è abbastanza in rilievo. II piedestallo di 178 cm, senza considerare il podio, (di circa 25 cm), è troppo alto e pesante rispetto al gruppo. Tutta la costruzione è discosta dal muro di circa mezzo metro. Il muro, sul quale si proietta la Pietà, ha un pannello liscio, alto circa 2m e ¾, in pietra con una cornice molto leggera; in alto il muro è stuccato. Questa cornice è assolutamente arbitraria e se non fosse per il distacco dal muro taglierebbe la visuale nel caso di avvicinamento al gruppo in dipendenza dal punto di osservazione. Più in alto, al di sopra del gruppo c’è una finestra e, sotto di essa, per tutta la sua lunghezza si appoggia sulla cornice un affresco con figure e due coppie di colonne dipinte lateralmente. La figura presentata di fronte è coperta dalla scultura ma può essere vista di lato. Questo sfondo visuale variabile non è in carattere con lo stile di Michelangelo in quanto crea intorno ad essa uno spazio libero non previsto. Oltretutto la base pesante e troppo alta attira l’attenzione e l’enorme finestra sopra le teste schiaccia la scultura che risulta rimpicciolita.

Questa Pietà dovrebbe stare su un modesto piedestallo non più alto di un metro appoggiato al muro, il quale in qualche modo dovrebbe essere legato alla scultura. Sarebbe bene sistemare sul muro, dietro il gruppo, una lastra di non complessa forma architettonica. Abbiamo avuto l’onore di districarci nella complessa storia dell’opera e di scoprire la verità così a lungo rimasta nascosta. Ciò si è reso possibile quando, applicando ad una serie di opere di Michelangelo il nostro metodo analitico, alla cui base sta la teoria dinamica della composizione, abbiamo potuto stabilire i metodi tipici del suo lavoro. Allora si è potuto scoprire esaurientemente anche la sostanza della composizione di quest’opera.

L’opera di Michelangelo tanto a lungo “incompresa” ha trovato infine la sua “pace”4 e noi siamo contenti della consapevolezza di avere per primi capito e indicato l’esposizione sbagliata, per oltre duecento anni, di questa meravigliosa creazione; di aver riferito la sua struttura formale e di aver trovato le spiegazioni dei più sottili particolari del suo contenuto psicologico. Tutto ciò ha contribuito alla scoperta della vera comprensione del pensiero artistico del Grande Maestro. Dopo la sua nuova e corretta esposizione l’opera del geniale Michelangelo può presentarsi nel suo vero aspetto e il pubblico potrà vederla e apprezzarla così come era stata creata quattrocento anni fa.

PAVEL PLAVLINOV, Giugno 1965


Note

  1. Nel libro citato dal Mallarmè (Pavel Pavlinov credeva che Camille Mallarmè fosse uno scrittore, invece era una scrittrice. Ndr), sulla base di alcuni dati, si fa la supposizione che per questa Pietà sia stato usato come materiale un antico capitello abbandonato.
  2. “Campo di forze nell’imagine è il complesso delle directioni e delle dimensioni di forze attivamente operanti nella coscienza operativa dell’artista nel complesso della formazione della composizione – tanto sulla superficie, tanto nello spazio immaginario, tanto nello spazio materiale della scultura”.
  3. Ciononostante non è privo d’interesse notare che Stuter ha fatto al suo Mosè delle piccole corna cresciute sul cranio con le pieghe della pelle alla base. Il fatto è che egli, come altri al suo tempo, era stato indotto in errore dall’espressione metaforica di un antico commentatore ebreo della Bibbia, presa alla lettera, nella quale si dice che Mosè, discendendo dal monte Sinai, con le tavole delle Leggi, emanava dalla testa due raggi di luce simili a corna di montone. Un certo riflesso di questa descrizione lo troviamo anche in Michelangelo.
  4. Nel Museo Metropolitano di New York c’è pure una Pietà del nostro scultore serbo Ivan Mjestrovic, che è una reminescenza della Pietà di Michelangelo. Ma in quest’opera, al Mjestrovic è rimasta assolutamente incomprensibile la straordinaria, per la sua profondità, caratteristica psicologica dell’originale (Fig. 32).

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